Ai tempi di Marco Polo, la Via della Seta era l’itinerario commerciale più battuto d’Oriente, percorso da carovane di mercanti che impiegavano mesi di estenuanti marce tra montagne e deserti per portare in Occidente i loro carichi di spezie, tessuti pregiati, legname, avorio, lacche e vasellame. Solo pochi si avventuravano via mare attraverso lo Stretto di Malacca, il braccio di mare che collega l’Oceano Indiano con la parte meridionale del Mar della Cina e con il Pacifico. Ambito dai siamesi che periodicamente cercavano di conquistarlo, lo stretto all’epoca era infestato dai pirati e considerato quindi troppo pericoloso. Ma già verso la fine del XIII secolo, con il dilagare dei mongoli in tutta l’Asia Centrale e il tramonto di Srivijaya, considerato il primo nucleo dell’odierna Malaysia, lo stretto si rivelò una buona alternativa diventando il passaggio privilegiato per i mercantili indiani, arabi, cinesi ed europei che facevano la spola tra Oriente e Occidente.
Il dominio degli europei
Mansour era anche un abile regista della convivenza tra le varie etnie stabilitesi in città (cinesi, indiani, birmani, siamesi e altri ancora), ma tanta ricchezza faceva gola ai conquistatori europei che non tardarono a colonizzare Malacca. I primi furono i portoghesi, che vi rimasero dal 1511 al 1641, seguiti a ruota da olandesi e britannici che si azzuffarono più volte per il predominio; solo nel 1824 gli inglesi della Compagnia delle Indie di stanza a Singapore ebbero la meglio. Per Malacca fu però l’inizio del tramonto, perché i nuovi padroni puntavano più sui porti di Penang e Singapore dove vantavano già salde radici. Abbandonati poco a poco i commerci, la regione di Malacca privilegiò l’agricoltura e prodotti come la tapioca, il caucciù e l’olio di palma, ai quali negli ultimi anni si sono aggiunti varie piccole industrie e il turismo. Per i malesi, visitare questa città, significa scoprire dove ha avuto inizio il primo e più antico boom economico che oggi ha trasformato la Malaysia in una delle realtà più dinamiche d’Oriente. Mentre gli occidentali, soprattutto europei, vi cercano tracce dell’antica “grandeur” coloniale.
L’ascesa di Malacca
Così il villaggio di Malacca, oltre che capitale del nuovo Stato fondato dal principe Parameswara di Sumatra, si trasformò in una sorta di Hong Kong malese, favorita dalla posizione strategica sulla costa sud occidentale della Malesia peninsulare e dalla presenza di un fiume, il Melaka, che consentiva di caricare e scaricare le navi al riparo da mareggiate e malintenzionati. Malacca si riempì di magazzini e divenne uno dei maggiori poli commerciali del sud est asiatico. La presenza massiccia di mercanti arabi ebbe come conseguenza la diffusione dell’Islam e trasformò il regno di Malacca in un potente sultanato che si dedicava ai commerci ma coltivava altresì le arti e tesseva abili trame politiche internazionali. Nel suo raffinato palazzo, andato distrutto perché costruito interamente in legno, il sultano Mansour Shah attorno al 1450 compì un piccolo capolavoro d’amore e diplomazia celebrando con grande fasto le sue nozze con la figlia dell’imperatore cinese.
In risciò alla scoperta della città
Il primo impatto con Malacca (o “Melaka”, come è chiamata ufficialmente in malese) in realtà è una sorpresa: nessuna traccia, almeno a prima vista, di passati splendori e ricchezze. Usciti dall’autostrada che collega la città a Kuala Lumpur, si ha la sensazione di approdare in un villaggio olandese di provincia. Nel centro storico attorno alla Town Square, piccoli edifici dipinti di rosso, dai frontoni ondulati, richiamano architetture tipiche della lontana Frisia, mentre sul municipio di metà Seicento, un tempo residenza dei governatori, campeggia ancora la scritta “Stadthuys” (municipio). Non resta nulla, tranne la Porta de Santiago, della fortezza portoghese. “A Famosa”, il Palazzo del Sultanato, sede di uno dei tanti musei culturali della città, è solo una copia in legno di quello originale. Ma un giro in “trishaw”, i coloratissimi e onnipresenti taxi-bicicletta che scorrazzano rumorosamente nelle stradine, consente di scoprire qua e là tracce dell’intensa storia di Malacca e dei popoli che ne sono stati protagonisti, soprattutto sotto forma di chiese cristiane, moschee e templi induisti e buddhisti.
Shopping nei cortili
La visita più interessante è quella del quartiere cinese, un fitto mosaico di casette a schiera che si sviluppa sulla sponda settentrionale del fiume Melaka, attorno alla Jalan Hang Jebat. É qui che vivevano i “peranakan”, come venivano definiti i discendenti dei primi immigrati giunti dalla Cina meridionale. Erano perlopiù famiglie di agiati commercianti in cui uomini (i “baba”) e le donne (dette “nyonya”) parlavano un dialetto malese frammisto a vocaboli presi a prestito dai colonizzatori. A loro si devono un raffinatissimo artigianato, specialità culinarie, tradizioni letterarie e usanze che ancor oggi fanno di Malacca uno dei luoghi più speciali della Malaysia. A testimoniarlo ci sono il Baba & Nyonya Heritage Museum al numero 48 della Jalan Tun Tan Cheng Lock e le stesse case-bottega dei peranakan, spesso dotate di affascinanti cortili interni e decorate con stili e particolari ispirati a varie architetture europee e asiatiche. Una parte delle case è ancora abitata, molte altre ospitano botteghe di antiquariato, negozi di souvenir, ristoranti tipici (ottimo il Peranakan con repertorio di piccanti piatti nyonya) e qualche piccolo albergo di charme come la Baba House. Un vero e proprio paradiso dello shopping dove curiosando tra tessuti finemente ricamati a mano, pantofole degne di un sultano, ceramiche cinesi in delicate tinte pastello, bracciali, abiti orientali e mobili coloniali, si tocca con mano quella ricchezza da “Mille e una notte” che secoli fa trasformò Malacca in un mito.
Non è bello quel che è bello…
Ammettiamolo: quante volte abbiamo arricciato il naso quando in strada o al supermercato ci siamo trovati davanti giovani con creste di capelli colorati in testa e decine di anelli infilati nelle orecchie o nel naso? Naturalmente ci siamo anche chiesti cosa possa mai spingere una persona a infliggersi simili torture in nome di una discutibile estetica. La risposta c’è e si trova in uno dei musei più sorprendenti di tutta l’Asia, il Museum of Enduring Beauty (museo della bellezza permanente) di Malacca. Allestita ai piani superiori di una vecchia palazzina sulla Jalan Kota, alle spalle del municipio, questa strepitosa esposizione illustra con foto, disegni e una manciata di strumenti, il concetto di bellezza coltivato da popoli e tribù di tutto il mondo. Che non esitavano in passato e ancora non esitano a sottoporsi a dolorosissimi interventi per decorare volto e corpo con cicatrici, conficcarsi in bocca enormi dischi labiali come fanno i Surma etiopi e i Suya brasiliani, allungare collo e orecchie con pesanti anelli alla maniera delle donne Padaung birmane, segare i denti per apparire minacciosi come fiere o modificare addirittura la forma del cranio.
Dagli esquimesi agli abitanti delle giungle asiatiche e delle savane africane, non c’è popolo che nei secoli non abbia coltivato propri canoni di bellezza, a volte dettati da motivi pratici o ambientali. Canoni lontanissimi dai nostri e talvolta inquietanti, che sono però parte integrante di quelle culture e come tali vanno compresi e rispettati. Del resto, come ricorda il museo con tanto di documentazione fotografica, se le donne cinesi un tempo si fasciavano i piedi per mantenerli in formato mignon, ancora nel Novecento molte donne occidentali si sottoponevano alla tortura di corsetti mozzafiato per ostentare un vitino da vespa. Perché da che mondo e mondo, come insegna l’affascinante museo di Malacca, vale l’antico proverbio secondo il quale “non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace”. E i punk? Una delle ultime tavole del museo è dedicata proprio a loro, paladini forse inconsapevoli di usanze vecchie quanto l’umanità.
Trottole e aquiloni per giocare all’orientale
L’abilità artigianale che accomuna i malesi a molti altri popoli asiatici si riflette anche nei giochi e passatempi che praticano. Quella di costruire aquiloni, chiamati “wau”, è un’arte che risale al XV secolo, quando a coltivarla erano i nobili del sultanato di Malacca. Fatti rigorosamente a mano impiegando carta cerata e asticelle di bambù, gli aquiloni malesi sono un tripudio di colori e fantasia. Ce ne sono di tutti i tipi, spesso elaboratissimi e ispirati a draghi, animali, fiori, astri, spiriti, divinità o semplici forme geometriche; decorati minuziosamente con motivi floreali e abbelliti con nastri, coccarde e bastoncini che producono fruscii e suoni particolari chiamati “degung”. Molto abili nel manovrarli, i malesi non amano soltanto confezionare aquiloni, ma anche osservarne il volo durante apposite competizioni che scatenano un tifo da stadio. A Malacca si trova un variopinto campionario di aquiloni nel People’s Museum (Muzium Rakyat Dan Kecantikan) sulla Jalan Kota, nello stesso edificio che ospita il Museum of Enduring Beauty. Curiosando nelle sue sale, si resta stupiti dall’infinità di forme e colori di questi oggetti volanti che in molti casi assomigliano a vere e proprie opere d’arte. Insieme agli aquiloni le vetrine del museo ospitano centinaia di trottole, un altro passatempo tipico di questa parte del mondo. Non si tratta però di giocattoli per bambini, ma di strumenti di precisione dalle dimensioni e dal peso variabili, talvolta anche notevoli. Farle girare ad arte richiede molta abilità e l’ausilio di una cordicella che viene avvolta attorno all’apposito perno; lo spessore dipende dalle dimensioni e dal peso della trottola. Quando si tengono le competizioni di “gasing”, seguite con passione dal pubblico locale, i campioni più quotati riescono a far girare le loro trottole anche più di un’ora con un colpo solo.
Leggi anche: