La donna afferrò il calice dal gambo lungo con una mano titubante, mentre i due uomini la osservavano in attesa, si portò alla bocca il liquido freddo e profumato, ne ingoiò qualche sorso e poi fece un segno di assenso.
«Buono?».
«Buono».
«Bene, può versarlo anche a me.» E poi, sollevando il calice in alto: «Alla salute!».
«Salute!».
Eppure le sembrava di conoscerlo quest’uomo. Dove aveva sentito quella voce dal leggero accento veneto? Dove aveva visto quella bocca rigida e serrata? Quegli occhi duri e decisi? Quella testa dai capelli lisci, che tendevano a scivolare continuamente sulla fronte? E quegli occhiali grandi dalle lenti appena affumicate? Non riusciva proprio a ricordare.
«Dimmi quello che mangi e ti dirò chi sei», enunciò lui mandando giú un sorso con aria beata.
«E noi chi siamo che mangiamo vol au vent con crema di funghi?».
«Un uomo e una donna seduti comodamente al caldo, fra luci seducenti e un vino squisito nei bicchieri, mentre fuori la tempesta si accanisce contro i fianchi del treno e la pioggia cerca di entrare prepotente. Immagini qualcuno che ci vede passare, da fuori, come un lampo…
Un pastore che porta a casa le pecore, un guardiano notturno, un ladro, un assassino: alza gli occhi e cosa vede? Un treno che rapido e silenzioso si avvia verso nord, le cui finestre illuminate rivelano un mondo elegante e pacifico… Mentre fuori fa freddo, forse i campi si stanno allagando, le bestie muoiono affogate, non c’è piú un rifugio per chi vaga nella notte, noi corriamo sereni verso il futuro…».
«Che immaginazione drammatica! Non è la fine del mondo che stiamo affrontando, ma solo un viaggio nel buio, verso una città del nord».
«La pioggia ha una sua voce. La sente lí fuori che ringhia? Noi siamo coraggiosi a non lasciarci angosciare. Noi, con la calma dei vincitori, scegliamo un buon vino, un buon cibo caldo e ci affidiamo ai sensi educati, senza badare alla tempesta che infuria là fuori».
«E se invece si trattasse di un vento benefico che pulisce l’aria, e la pioggia venisse giú salutare per fertilizzare i campi, e le bestie pascolassero pacifiche sui prati finalmente coperte d’erba?».
«Una mentalità pericolosa la sua, che tende a pacificare e accudire. Tipicamente femminile. Le donne pensano sempre in termini materni, bonari e consolatori. Gli uomini conoscono meglio la realtà, e si preparano alle guerre che dovranno affrontare».
«Vorrebbe fare la guerra al tempo?».
«Perché no? Il tempo ferisce. Io l’ammazzo per risparmiare l’eternità».
«Lei parla come un filosofo piuttosto che come un commerciante di cavalli».
«I cavalli sono abitati da un pensiero profondo e lunare. Sono selvaggi nell’anima, ma capaci di affetti tenaci. Sono scalpitanti e pazienti. Generosi ed egoisti. Oserei dire che sono migliori degli uomini».
«Io non so niente di cavalli».
«Beh, se me lo permette, un giorno le farò visitare la mia scuderia. Sono sicuro che si innamorerà dei cavalli, come lo sono io. C’è qualcosa di stellare e antico in loro, qualcosa che li rende piú vicino a Dio di quanto lo siamo noi».
Jole Pontormo si lasciava cullare da quella voce. Il cameriere arrivò con i vol au vent che fumavano deliziosi sul piatto. Lei immerse la forchetta nel panierino di pastafrolla e si portò alla bocca la crema che profumava di fungo porcino. Le parve di sentire un piccolo venticello delicato che correva fra i denti. Vola al vento! che strano nome per un piatto cosí statico!
L’uomo ora parlava di costellazioni, raccontava la storia di Cassiopea, «una bella giovane che sposò Cefeo, re di Etiopia ed ebbe una figlia chiamata Andromeda. Ma poiché si vantava che la figlia fosse piú bella di tutte le Nereidi, il cupo Nereo si arrabbiò, scatenò le ire del dio del mare, Poseidone, il quale mandò un orrendo serpente a divorare gli abitanti di Etiopia. Il re, disperato, si rivolse a un indovino che decretò: se volete liberare l’Etiopia dal mostro, dovete sacrificare la piccola Andromeda. Il popolo etiope stava per uccidere la bambina Andromeda, quando, volando, arrivò Perseo che la salvò dalla morte. Ma Cassiopea fu punita per la sua arroganza e mandata a girare capovolta, inchiodata alla volta del cielo».
Jole Pontormo lo ascoltava socchiudendo le palpebre. Ma dove aveva sentito quella voce che a momenti le appariva insinuante e provocatoria, a momenti sincera e appassionata?
Poi improvvisamente, mentre mandava giú un sorso di quel vino freddo che sapeva di pesche e di fichi, ebbe un sussulto. Spalancò gli occhi e guardò l’uomo con un misto di terrore e di sbigottimento.
Le venne in mente il giorno piú terribile della sua vita. La banca dove aveva appena ritirato i soldi della pensione del marito, un irrompere di giovani che imbracciavano mitragliatrici e pistole. Ordini secchi. Le casse che si chiudevano automaticamente, l’allarme che partiva. Il direttore che urlava mentre un uomo alto, dai jeans sdruciti e le scarpe da ginnastica bianche le puntava una pistola alla tempia. Quell’uomo parlava, parlava.
Non ha mai ricordato cosa dicesse, ma parlava con il direttore, dava ordini brutali… Ricorda a stento che le aveva strappato dalle mani i pochi biglietti da cento piegati dentro la ricevuta, e nel farlo l’aveva rabbiosamente spinta per terra. Subito dopo si era avventato sul direttore costringendolo a riaprire le casse, e alla fine, quando il direttore aveva fatto un gesto azzardato, gli aveva sparato sulle gambe senza pietà.
Una coincidenza assurda. L’uomo seduto di fronte a lei certamente assomigliava molto a quell’altro, ma non poteva che trattarsi di un caso. Come poteva, una persona cosí gentile, cosí colta, che parlava quasi in versi, che sapeva tutto sulle costellazioni, avere rapinato una banca in pieno giorno, senza nemmeno coprirsi col passamontagna? Tanto sicuro di sé da camminare in pieno giorno a testa alta, con quei capelli castani, lucidi e setosi che gli cascavano di continuo sulla fronte ampia. No, non poteva essere, la sua memoria la stava ingannando.
L’uomo si accorse del suo turbamento e si sporse verso di lei con fare premuroso:
«Qualcosa che non va?».
«No, è che lei assomiglia a un uomo che… che… beh, che mi ha fatto molta paura una mattina in una banca… ma sono sogni, visioni…».
«Una rapina in banca? Beh, perchè no, potrei benissimo essere io! Oltre che ai cavalli mi dedico anche alle rapine in banca. Ne ho già rapinate sette. Non mi crede? M’infilo dei jeans sdruciti, mi metto un paio di scarpe da ginnastica e via, a rapinare banche… Anzi, vuole vedere i miei strumenti, stanno dentro quella borsa».
L’uomo rise con una tale tranquillità e gioiosità, da rassicurare del tutto Jole Pontormo. La quale alzò timidamente il calice e disse in un soffio:
«Ha ragione, ho le visioni. Alla salute!».
«Alla salute!» ripetè lui alzando il calice. Mandò giú in pochi sorsi tutto il vino che si trovava nel bicchiere.
Intanto erano quasi arrivati. L’uomo – ma come si chiamava? Nonostante l’invito alla scuderia, non glielo aveva detto – si infilò il cappotto di cashmere, la aiutò a indossare l’imbottita di plastica color fucsia, sollevò da terra la borsa che appariva davvero pesante e si avviarono ciascuno verso il proprio vagone.
«Arrivederci!» disse lei quando si aprirono le porte all’interno della stazione.
«Arrivederci, signora Pontormo!» aveva gridato lui mentre scendeva con un salto dal predellino e spariva nella folla della stazione.
Jole rimase in piedi come una scema, vicino alla valigia, le scarpe inchiodate al pavimento. Come faceva a sapere che si chiamava Pontormo? E improvvisamente le era tornato in mente che l’uomo in banca le aveva strappato dalle mani la ricevuta della pensione del marito con il nome scritto sopra. E ricordava la voce. Era proprio quella voce, anche se il tono era un altro.
Ora era sicura che si trattava di lui. Ma dove sarà sparito? E poi perché l’aveva voluta ingannare cosí perfidamente? Era stato solo un caso il loro incontro o quell’uomo l’aveva seguita e aveva inscenato quel teatro per darle una lezione? Per mostrarle che anche i rapinatori possono essere persone colte, raffinate che sanno come mangiare e come bere?
Ricordò improvvisamente una intervista che aveva dato a un giornale poco dopo il fatto. Al cronista, che le chiedeva cosa pensasse dell’uomo che l’aveva rapinata e buttata per terra lussandole una spalla, aveva risposto: «Un bruto, un ignorante, si vedeva lontano un miglio che era analfabeta, uno cresciuto in mezzo alla strada». «E cosa diceva quando parlava durante la rapina?». Non se lo ricordava, ma le era parsa una voce rozza, da reietto di periferia. Cosí aveva detto al giornalista. E ora sapeva con certezza che l’uomo dei cavalli aveva letto quelle parole.
Prese la valigia, scese dal treno e si diresse verso la polizia. Ma cosa avrebbe deposto? Che aveva cenato in treno con l’uomo che un anno prima aveva rapinato la banca vicino casa e l’aveva gettata per terra strappandole dalle mani la pensione del marito? Ma se non sapeva nemmeno come si chiamava! C’era la storia dei cavalli, certo, ma probabilmente era tutta inventata. Cosa poteva dire? Che quello che aveva creduto un bruto analfabeta era un signore elegante e colto che parlava di stelle e conosceva le poesie a memoria? Era poco, era veramente poco.
(22/06/2012)