Non c’e nostalgia di casa che non passi con una buona cena, troveremo dei pellegrini che parlano inglese o portoghese. Avanti, in cammino! come direbbe mia cugina Cricri, citando il suo caro Rimbaud. Che telefoni ai genitori, sono sempre in ansia, i genitori. Non sembra avere problemi di soldi. Mi viene da ridere pensando agli amici che mi chiamano “la sorellina dei ricchi”. Sono riuscita a trovare ancora una pecorella smarrita che sta ore al telefono con il Brasile da una cabina con carta di credito illimitato in nichel massiccio… Ha preso una vera camera d’albergo, lei!
Compro una conchiglia per ciascuna, con la croce-spada di san Giacomo rossa nel mezzo. Ne ha gia una, chiaramente. I ricchi hanno sempre già tutto. Ecco perché è cosi frustrante frequentarli – eppure molto santificante, checché se ne dica. Campane. Le otto, messa dei pellegrini. Con i piedi nudi e pronti a esplodere, resto in fondo alla chiesa. A un certo punto, quelli che sono diretti a Santiago vengono chiamati nel coro gotico. Mi avvicino. Allineati, siamo in pochi rispetto ai fedeli nella chiesa e agli scarponi all’entrata del rifugio, venti, venticinque al massimo. Alcuni li ho gia incrociati, ma non molti. Sono in mezzo a sconosciuti. Un pugno di sacerdoti ci benedice, secondo l’antica formula che deve proteggerci dai pericoli lungo la strada e riportarci a casa sani e salvi dopo aver visitato la tomba dell’apostolo; la benedizione si conclude con la famosa invocazione: “Pregate per noi a Compostela!”. Ci siamo. Eccoci confermati pellegrini di san Giacomo. Tutti.
Un miscuglio di età, di nazionalita, e perfino di convinzioni, a quanto pare: alcuni si fanno il segno della croce, altri no, le mani rigorosamente incrociate dietro la schiena, oppure si segnano al contrario. Impossibile, ormai, tornare indietro, disertare il lungo cammino che ci si spalanca davanti. Ancora più di settecentocinquanta chilometri, almeno…
Spaventoso. Soprattutto quando ci si sente già, come me, a pezzi, tenuti insieme da una pellicina sottile e pronta a lacerarsi. Una follia. Alla fine, ci voltiamo verso la statua della Vergine di Roncisvalle per intonare la Salve Regina, quel vecchio “Mamma, mi fa male!”, dell’immensa afflizione cristiana; capisco come possa essere stata composta a Vezelay, sul cammino di san Giacomo: “Mater misericordiae, Madre di misericordia, Ad te clamamus, exsules filii Evae, a te ricorriamo, noi, esuli figli di Eva, Ad te suspiramus, gementes et flentes, a te sospiriamo gementi e piangenti… In hac lacrimarum valle, in questa valle di lacrime…”.
Non l’ho mai cantata così forte, né con un tale miscuglio di autentico panico e di disperata fiducia: “Advocata nostra, tu, nostra protettrice, Illos tuos misericordes oculos, volgi a noi i tuoi occhi misericordiosi… O O O Clemens: Oh clemente, oh pia, oh dolce Vergine Maria”. L’ultima frase con tutti quegli oh oh oh che vanno su e giù assomiglia alla tappa di oggi. I miei poveri piedi seguono le orme dei miei fratelli del Medioevo, e solo una cosa è certa: a questo punto, nessun altro può condurmi al traguardo, se non la santa Vergine.
E’ rassicurante.
E anche abbastanza da ridere.
(06/07/2012)
La finta madre del disabile sta cercando da un po’ di convincerlo ad alzarsi, niente da fare. Gli dico: “Vieni?”. Mi segue. Tanto vale entrare subito nell’idea del miracolo permanente, altrimenti non ce la caveremo piu. La donna mi lancia un’occhiataccia; è normale: siamo sempre malvisti, noi profeti… Ecco la Spagna, finalmente! Promessa di vasti orizzonti, di vino, di sole. E’ questa lingua splendida, esigente, che mi piace udire e parlare, che gratta le orecchie e graffia la gola.
La frontiera spagnola è la prima che ho varcato in vita mia, e mi fa sempre lo stesso effetto inebriante. Tutto va meglio dall’altra parte; intanto abbiamo lasciato la strada asfaltata per un sentiero sterrato e una fitta foresta, dove risuonano il tradimento di Ganelon e il coro di Rolando; ci stiamo avvicinando a Roncisvalle, “Roncesvalles”: (Rrronncesseballiesse) Geniale! (Hhrrrh-enial).
Muoio di fame, oltre ad avere male dappertutto. E sento delle voci, tanto da voltarmi piu volte nel sottobosco. Nessuno. Dietro di me, solo i rami degli arbusti al vento. Voci di donne, però, ci giurerei… Ci metto un bel po’ a capire: ninfe! Sembrano davvero dei mormorii tra le frasche… Sto ascoltando il più vecchio poema del mondo, figlio della natura e di un essere umano in cammino, lo stomaco vuoto. Altra scoperta: la montagna non è una piramide su cui ci si inerpica da un lato per ridiscendere dall’altro, con un versante nord e un versante sud; e un paesaggio che non smette di salire e scendere.
Tutte le montagne sono russe. Compresi i Pirenei spagnoli. Gli ultimi chilometri sono interminabili. I peggiori. Perché si vede il punto d’arrivo ma non la fine. Noi ci avviciniamo, lei si allontana. Logorante. All’arrivo, è bella Roncisvalle. Vecchie pietre medievali, chiostro, collegiata, romanico e gotico a iosa, mausoleo, rifugio d’epoca in un convento che trasuda storia, di che riempire quindici pagine di Guide bleu, tutto ciò ammassato lungo la via principale è tutto chiuso, tranne un ristorante. Alleluia! Non ci pensiamo neanche a trasformarci in asceti solo perché siamo dei pellegrini! Ma nemmeno ci abbuffiamo di salsiccia di chorizo a fette su carta oleata, intonando canti di marcia. Un po’ di contegno e di civiltà.
Il menu del pellegrino è a sette euro, primo, secondo, dessert, pane e vino, tutto compreso. La tovaglia è bianca. Sono le due. Ah, la terribile gioia di stare in disparte! Seduta, la schiena libera dallo zaino. Devo sprigionare un odore medievale, in armonia con l’ambiente. Non sto visitando il luogo, lo abito. Il turismo non mi avrà. Non voglio conoscere la storia, voglio viverla, berla e mangiarla. Amen!
Al monastero, bisogna fare la coda per avere un letto e un timbro sulla credenziale, il passaporto del pellegrino. C’e un vero e proprio ingorgo! Ma il dormitorio vale il colpo d’occhio: sono così i rifugi all’inizio del XXI secolo; una cinquantina di letti a castello in legno scuro, su uno sfondo di pietre a vista. Un luogo che ha qualcosa di militaresco. Ordinato, collettivo, austero. Bisogna lasciare gli scarponi all’entrata. Almeno sessanta paia sono gia lì. Dopo la doccia eccomi dunque a piedi nudi (senza i sandali da surf rimasti ventotto chilometri piu indietro) per andare a stendere la biancheria, che ho lavato col sapone di Marsiglia. Pungono, i sassolini!
Ho i piedi gonfi come grossi frutti, con cinque ciliegine alle estremita: ho la sensazione che la pelle stia per scoppiare. Minaccia temporale. Un vento vorticoso, caldo, pesante. Cielo grigio. “Do you speak english?” “Yesseu?” Me l’ha chiesto una ragazzina bionda e pallida. A quanto pare non sono in molti a parlare inglese, e ancora meno portoghese – lei è brasiliana: Tatiana. Ha ventun anni, è disorientata, e inizia a piovere. Al bistrot! Alle brasiliane piacciono le cose dolci, le offro un anice del mono, “della scimmia”, vecchio aperitivo locale, molto zuccherato, molto denso. Con ghiaccio. Fa bene. A me, almeno.
Figlia unica, Tatiana ha lasciato il Brasile per il cammino di san Giacomo (scoperto in un libro del suo connazionale Paulo Coelho) per un colpo di testa, per fare dispetto al fidanzato e ai genitori. Adesso che è qui, dopo dieci ore d’aereo e tre di autobus, è lei a essere decisamente indispettita. L’unico modo per uscirne bene e continuare a piedi fino a Santiago, le dico, dall’alto di non so quale saggezza imbevuta d’anice.