Venerdì 22 Novembre 2024 - Anno XXII

Pedalate filosofiche in val d’Orcia

Athos Turchi, ciclista per passione e professore di filosofia teoretica alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale di Firenze ci accompagna in un viaggio su due ruote in val d’Orcia. Un itinerario del pensiero, un giro in bici alla ricerca di un senso o un non senso nel suo libro “La bicicletta e l’arte di pensare”, Edizioni Effigi

Pedalate filosofiche in val d'Orcia

La nebbia del mattino fa della val d’Orcia un lago di acqua bianca. Qua e là, come isolette e piccoli scogli, emergono le cime dei poggi con il loro podere, attorniato da qualche cipresso che punge il cielo terso di primavera. I cipressi mi sembrano palme d isole caraibiche in questo fantastico quadretto marino che si presenta attorniato da dolci colline. Aspetto che il sole caldo di aprile sciolga la nebbia che pietosa copre la dura terra di questa valle, rimasta lontana da tutto e da tutti. Sbuca dalla nebbia un carro di bovi che lentissimo avanza per la stradina che s’inerpica verso il podere. La strada è resa molle dalle piogge di primavera e il carro è caricato di una enorme botte piena d’acqua che servirà al contadino e alla sua famiglia per tutta la settimana.

I bovi, con muggiti e con gran fatica, muovono a stento il carro che affonda impietoso le ruote nella vischiosa creta della valle. Il contadino li incita, scrolla dagli scarponi bullettati le zolle di mota che vi s’appiccicano, e da dietro spinge con vana forza il carro in un gesto di misericordioso aiuto verso i due animali. E nel mentre impreca. Imprecazioni grosse contro tutto ciò che può averlo condannato lì. Ecco la val d’Orcia: creta, animali e uomini accomunati e mescolati nell’ugual destino del non senso. In quello spazio di desolata materialità e in quel deserto di significati, dà un tocco d’umano solo quella voce, che si alza dal più basso dei suoli che grida il suo «assurdo» contro Colui che – se c’è – li lascia marcire in quel posto senza senso.

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Pedalate filosofiche in val d'Orcia

Indagare l’uomo da questo angolo di nulla è un cammino difficile quanto tirare il carro. E chiedersi come fa Kant: «Che cosa posso pensare? Che cosa debbo fare? Che cosa posso sapere? Chi è l’uomo?» potrebbe sembrare un gioco sadico, soprattutto dalla parte del contadino che potrebbe infoltire il nugolo delle imprecazioni.

Il caldo d’agosto ha reso la creta dura come la pietra, e vi ha aperto crepe che sembrano volere mordere il piede di chi le calpesta, quasi a ricordare che l’uomo, lì, è solo pochi centimetri più alto della terra.

Passo per queste lande verso l’Orcia, rivo d’acqua che le taglia a mezzo e lascia un’unica lunga scia di verde della vallata.

“Orcia” è certamente un termine di origine etrusca e sembra voler dire «creta» da cui sono fatti appunto gli orci, le urne, le giare, gli ziri, ma altri dicono che significasse «fiumiciattolo, rivo». Appropriate entrambe le etimologie alternano alla valle il senso duro, arido, radicale della morte, e il senso dell’acqua che vicino alle sue rive pietrose i fiori, le ginestre, le varie erbette parlano ancora di vita.

Mi sono deciso a fare un giro ciclistico intorno all’uomo, cominciando proprio da quel contadino e cercandone una ragione nella terra che lavora, calpesta, insulta, ma alla quale poi deve la vita. Una bici, un territorio, come uno è il mondo nel quale cercare un senso per l’esistenza tutta.

Pedalate filosofiche in val d'Orcia

C’è il giro d’Italia, il tour de France, ma un giro in bici intorno e dentro l’umanità non è da scartare. Il mistero umano con i suoi pensieri da scalare, le sue paure da percorrere, i suoi tortuosi sentimenti da visitare, e così le sue politiche, le sue correlazioni, il suo mondo, sulle quali discendere veloci, sono spazi immensi per una pedalata, ma il solo toccarli danno gusto allo sforzo, come quando un bel panorama o un nuovo incontro premiano la fatica del ciclista.

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Un giro in bici vale un giro nel mondo del senso e del non senso, dove l’uomo si dibatte e dove ne cerca una via di uscita. La bici passa rapida per la piatta valle che avvolge lo sguardo di poggi e calanchi. Vado a fermarmi sotto la grande quercia che fiancheggia la strada, che taglia in due, come il fiume, la vallata e va verso Radicofani. La quercia è bellissima, enorme, possente. Dal suo poderoso fusto si distendono rami a non finire, rami qui in basso robusti e fortissimi, poi sempre più folti verso l’alto azzurro. E’ incredibile come da un suolo arido e morto possa emergere questo inno alla vita, o meglio alla potenza della vita.

Mi sdraio lì sotto e la guardo dal basso: mi rigenera lo spirito come la terra per Anteo. Che abbia ragione Nietzsche? L’uomo più vuole elevarsi verso l’alto e verso la luce, con sempre maggior forza deve penetrare con le radici la terra. Da qui vedo il brulichio di rami che si allargano verso il cielo azzurro quasi vivi, come i serpenti sulla testa di Medusa nel quadro di Caravaggio. E’ un bel posto per cominciare a pensare al senso che l’uomo possa avere nei suoi anni di vita, e non posso non iniziare da questo suolo dal quale gli scarponi bullettati del contadino non riescono a staccarsi. In che rapporto stanno la creta vischiosa e l’uomo che sopra cerca di camminarvi? Ecco la direzione del cercare e dunque della strada.

(26/04/2013)

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