Bari Vecchia ha il bianco delle medine e le palme dei giardini nordafricani, nei suoi mercati si contratta come nei bazar d’Oriente e nel suo dialetto sincopato, gutturale, non sono mai scomparse le tracce della lingua che vi si parlava quando al-Ba¯ru era il più influente emirato della penisola italica. Arabo ma anche greco vivevano nel barese antico, quando era una sorta di lingua franca parlata dai marinai che a piedi scalzi sulle assi di trabaccoli e tartane solcavano i mari saraceni. E dall’altra parte dell’Adriatico, dove oggi c’è il Montenegro, Bar si chiamava semplicemente Antivari: «Di fronte a Bari». Bastava.
Bari è tra Oriente e Occidente, da sempre. Il suo santo patrono è una specie di marabutto cristiano, venerato un po’ ovunque da ortodossi, cattolici e pagani, e viene dalla Turchia. L’iconografia orientale lo ritrae col volto scuro: San Nicola Nero lo chiamano, come se si trattasse di un altro, come se non fosse lo stesso santo. Per quella nordeuropea è Sankt Nikolaus e veste una mantella rossa, la mitra e il pastorale. Per Natale lo fanno di cioccolata. Fino al 1087 i baresi non avevano un proprio patrono, così se lo andarono a prendere. Le sue spoglie erano custodite a Myra, in Anatolia, dove erano venerate già da sette secoli. La città era caduta in mani musulmane e c’era da salvare le reliquie del santo, anche se gli ottomani non avevano toccato il sepolcro cui la città continuava a essere legata. Si mossero Venezia e Bari.
I veneziani già nell’828 avevano trafugato il loro San Marco dall’Egitto, nascosto sotto un carico di carne di maiale che tenesse alla larga la curiosità degli islamici. Avevano il know-how, ma i baresi furono più veloci. Sessantadue marinai su tre navi salparono per Myra, si fecero indicare la tomba di Nicola come pellegrini qualunque, raccolsero le ossa e le imbarcarono. Gli abitanti si attaccarono ai remi implorando di non portarsi via il loro santo, i baresi gli restituirono un’icona che aveva cominciato a lacrimare: forse San Nicola non era così felice di lasciare la sua Myra per Bari.
Ma quanti Mediterraneo ci sono? Quante facce ha questo continente parallelo che è fatto di acqua e non di terra? Quante possibili rotte tese da una sponda all’altra lungo questa costa frastagliata che gira attorno alla storia? Quanti viaggi? In questo racconto ce n’è uno, il nostro viaggio intorno al Mediterraneo, solo uno dei tanti possibili e non il giro del Mediterraneo. Non lo abbiamo circumnavigato nella sua interezza, ce ne siamo discostati più volte, lo abbiamo tradito per il Sahara – un altro mare, più solido, più grande, più spaventoso – per il Mar Rosso, per il Mar Morto; non abbiamo visitato né Libano né Israele ma abbiamo attraversato la Giordania che sul Mediterraneo non è, eppure è Paese mediterraneo più di altri.
Abbiamo percorso l’altra sponda del Mare quando ancora il vento della Primavera araba non aveva cominciato a soffiare, prima che il sangue scorresse sulle strade e i mortai sventrassero le città. È stato un privilegio. Farlo con una Fiat 500 vecchia di quasi quarant’anni può avere il sapore di una sfida, forse anche di una piccola avventura, ma c’è di più. La velocità che impone scandisce il viaggio con una parsimonia dimenticata tra i moderni motori a scoppio, la sua piccola scocca ripara dai capricci della strada come un ombrello in una tempesta, e la sua linea che pare uscita dalla matita di Walt Disney fa sgranare gli occhi ai bambini e fa tornare bambini i grandi.
Ovunque. Lo sospettavamo da sempre, l’abbiamo visto nei 16mila chilometri fino a Pechino, ne abbiamo avuto conferma quasi appena sbarcati a Tunisi e per tutto il viaggio: la 500 è la chiave che apre gli usci delle case, fa alzare le sbarre alle frontiere, fa sparire d’un soffio le barriere linguistiche e culturali, scioglie la diffidenza verso lo straniero e la trasforma in incontenibile curiosità. L’abbiamo tirata fuori dal garage così com’era tornata da Pechino, dopo venti giorni di container che hanno lasciato più acciacchi dei cento trascorsi lungo le strade dell’Eurasia, e siamo partiti. Abbiamo avuto gioco facile, dal momento che la via dell’andata ci avrebbe portato anche al punto di ritorno, da Bari a Bari passando per 10mila chilometri e otto Paesi, cinque mari e altrettanti deserti. La meta era casa, la 500 il mezzo. E il viaggio, come sempre, il fine.
(13/06/2014)
L’olio d’oliva ha conservato per secoli i prodotti di una terra calda prima dei frigoriferi, insaporisce la moussaka greca, l’hummus palestinese, le insalate italiane, la paella valenciana. Burro e margarina sono roba da mari del nord. Ulivo, ma non solo. Anche l’asino, animale mediterraneo per eccellenza, segna un confine: il freddo del nord e le steppe dell’est vanno bene per il trotto dei cavalli, i deserti del sud e dell’Oriente sono il regno indiscusso dei cammelli. Le coste frastagliate, gli impervi sentieri montani, le mulattiere, i vicoli angusti delle città riecheggiano degli zoccoli del robusto quadrupede che da sempre porta in groppa le some dei popoli mediterranei.
Lucio, l’asino d’oro di Apuleio, quello parlante di Balaam nella Bibbia, Lucignolo, il ciuchino di Pinocchio, l’asinello che tiene caldo il Gesù bambino: la cultura mediterranea ne è piena. Così il suo cugino mulo. «Mulo» è detto in tono spregiativo il bastardo, e mulatto il sanguemisto bianco e nero.
Il Mediterraneo è incrocio di genti, meticciato. «Nessuno è chiamato a scegliere tra l’essere in Europa e l’essere nel Mediterraneo, poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo», ha detto una volta Aldo Moro. Forse peccava di ottimismo, forse di pragmatismo politico. Comunque la si veda, noi ci siamo dentro. Noi italiani, in preda a una sorta di strabismo che dal mezzo del Mediterraneo ci fa guardare sempre di più all’Europa (la Mitteleuropa, fonte di un cronico complesso d’inferiorità) e ci fa dimenticare che prima delle autostrade era più facile navigare dalla Sicilia alla Tunisia che valicare le Alpi; Venezia, nel nord-est che volge le spalle a sud, non sarebbe splendida come la conosciamo senza il suo Oriente che la portava a fare affari direttamente con Costantinopoli mentre Genova, a un tiro di schioppo dalla Francia, aveva basi stabili per i propri interessi commerciali a Malta, Pera e Galata, nel cuore di Istanbul.
Se Francia, Austria, Svizzera sono i nostri vicini, il Nord Africa è il nostro dirimpettaio. Non dovremmo dimenticarcene. Palermo, da dove siamo salpati per la Tunisia, è una città araba e normanna, con i suoi suq e la sua casbah, la Vucciria e la Kalsa; e Bari, la città da cui siamo partiti e in cui siamo tornati, la mia città, è la città più levantina d’Italia, qualunque cosa con questo si voglia intendere.