Per non essere da meno della stampa e della storiografia universali, ho pensato bene di commemorare anch’io il primo centenario della prima Guerra mondiale mediante una gita in quella tribolata appendice meridionale della Mitteleuropa, i Balcani, in cui maturò il conflitto che cambiò i nostri destini (ancorché più estesa, la seconda Guerra mondiale fu meno tragica – salvo il dramma dei bombardamenti aerei su inermi civili – grazie alle nuove tecnologie e alla scoperte scientifiche, vedi la penicillina e il radar).
La memoria dell’arciduca
E non sono rara aves nel ricordo di quel conflitto, anzi, ci sarebbe poco da stupirsi se pure i magazines di cronaca rosa narrassero che il 28 giugno 1914, a Sarajevo, Gavrilo Princip, accoppando l’arciduca Francesco Ferdinando e signora, provocò un ultimatum dell’impero Austro Ungarico alla Serbia, respinto il quale una concatenazione di reazioni di vari Paesi europei, uniti da trattati e alleanze, diede vita alla WW1 (come usasi sbrigativamente definirla in inglese) durata più di quattro anni (non per l’Italia, che fruì di uno sconto e cominciò solo 24 maggio del ’18, fosse solo perché il mese facesse rima con passaggio – del Piave da parte dei fanti – di cui al noto inno che più retorico di così, non si può).
Un “fazzoletto” di mare. Ma c’è!
Ma per andare dal Belpaese nei Balcani (beninteso in auto: ti fermi dove vuoi e vedi quel che vuoi, aerei e treni van bene ai vacanzieri stanziali in alberghi vista mare e a chi va a imbarcarsi in stolte crociere) dovevo passare dalla Slovenia, da cui si evince che non ho potuto esimermi dal tampinare e chiedere lumi ad Ada Peljhan, demiurga del Turismo sloveno a Milano. Perché conoscevo poco del suo ancorché piccolo (ma mai come in questo caso vale il detto piccolo è bello) Paese (a me simpatico, e più avanti spiego il perché). E fatta eccezione per una giovanile visita alle celeberrime grotte di Postumia-Postojna, un blitz balneare a Portorose-Portoroz (a cantare la nota canzone dei ciucc di quelle parti, la Mula de Parenzo) e, da aficionado alla storia, un sopralluogo a Kobarid-Caporetto (tragica parola per gli italici, e a farci scappare c’era pure un giovane Rommel) in Slovenia avevo limitato le mie apparizioni soltanto per motivazioni poco gloriosamente gastronomico-palatal-goderecce. In un paio di occasioni, traguardando a oriente i colli dalla friulana Cormons del mè amìs Bruno Pizzul, mi recavo infatti all’assaggio di quegli stessi vini (cambiava, e di poco, il nome, sai che problema, ma cambiava, questo sì, importante, anche il prezzo, ça va sans dire più basso, e parimenti viaggiare oggidì in Slovenia costa davvero poco, vedi tra poche righe), vini che in terra italica rispondono al nome di Ribolla (Rebula), Verduzzo (Verduc) e Malvasia (Malvasija) invero più vino istriano che della zona Collio, italiano o sloveno che sia).