Uno scrittore cileno dell’Ottocento ha detto che gli europei in visita nell’ America del Sud parlano sempre di vulcani, selve amazzoniche, tempeste di Capo Horn, poiché non possono fare a meno di celebrare la natura selvaggia. Stefano Malatesta, giornalista inviato di Repubblica, è stato ovunque con tutti i mezzi possibili e anche impossibili. Il libro “L’uomo dalla voce tonante” edito da Neri Pozza è composto da racconti che cominciano con un viaggio per finire nella storia, nella geografia, nell’antropologia, nella letteratura. Un romanzo dell’ America del sud che si muove da sud a nord: da Capo Horn fino al Messico, alternando momenti drammatici – quali i funerali di Pablo Neruda – e altri improntati alla Luxe, calme et volupté, per dirla con Matisse, come le ore trascorse in un bar all’Avana, a fumare interminabili cohiba, a bere innumerevoli daìquiri e a contemplare la mirada fuerte dei cubani nei confronti delle loro giovani donne.
In Patagonia tra le pecore made in Italy
In Patagonia sono stato ospite della famiglia Benetton, che in Argentina del Sud ha due o tre estancie, sparse in un territorio immenso. Attraversato dal leggendario Viejo Treno Patagonico chiamato “La Trochita”, a scartamento ridotto, citato da Paul Theroux e da Bruce Chatwin e da altri frequentatori della Patagonia. Tutte le aziende erano dirette da Carlo Benetton, il più giovane dei quattro fratelli. Lo incontrai a Buenos Aires: era la prima volta che lo vedevo e immediatamente scattò una simpatia reciproca. Sembrava un atleta in perenne allenamento, vestiva pantaloni sportivi e camicie di flanella e altri capi tutti strettamente Benetton. Non stava mai fermo, riusciva a stare seduto solo per pochi secondi, poi si alzava e cominciava a sgambettare sulle punte come faceva Ray “Sugar ” Robinson. Era un grande sportivo, amava vivere all’aria aperta e più tardi mi disse, in un momento di confidenza. che durante il weekend non riusciva a rimanere a casa, qualcosa lo spingeva a prendere la bicicletta in solitaria da Treviso a Cortina e tornare la domenica tardi. Appena arrivato in Sudamerica aveva scalato l’Aconcagua, alto più di settemila metri. E tutti i pomeriggi che sono stato da lui andavamo a pescare le trote salmonate, che poi ributtavamo nel lago perché non saremmo riusciti a mangiarle tutte.
Un giorno mi chiese: “Vedi quella collina oltre il lago, quanto credi che ci possa impiegare per raggiungerla?” Io risposi distrattamente: “Almeno tre ore, tra andata territorio”. “Due ore al massimo”. “Scommetto di no”. “Allora controlla l’orologio”, e partì di corsa tornando puntuale due ore dopo, felice come un ragazzo. Mi congratulai con lui, dicendo che perdevo sempre queste scommesse, perché non sapevo valutare la capacità di un fisico di compiere performance: molto superiori alle sue possibilità. E raccontai quando scommisi una cassa di birra con dei vecchi portatori che mi accompagnavano per le montagne dell’Etiopia. L’ultimo a raggiungere il paese dove eravamo diretti avrebbe pagato per tutti. Io partii di corsa mentre i due vecchi si mossero lentamente, senza fretta, ma dopo qualche minuto sentii qualcuno che trottava dietro di me: erano i due vecchi che mi stavano sorpassando a larghe falcate e stavano pensando alla birra. Compresi che non c’era europeo che potesse battere questi settantenni che saltavano da una roccia all’altra come stambecchi e fui felice di pagare la scommessa.
A un certo punto a Buenos Aires Carlo mi chiese: “Senti Malatesta, cos’è questa storia degli Aztechi?” Mi venne come un brivido freddo dietro la schiena, poi riuscii a rispondere: “Senti Benetton, gli Aztechi stavano nel Messico, i Maya nello Yucatan. In Patagonia dove stiamo andando c’erano i Teuehelches e dall’altra parte in Cile c’erano gli Araucani”. “Bravo Malatesta!” rispose. “Allora la sera facciamo il cinema, dopo aver mangiato il chorizo de lomo, però non cotto come usano qui, ma al sangue. Ci racconti la storia del Sudamerica”.
Carlo era un industriale di prima generazione, non particolarmente acculturato ma era lontanissimo dal farsene un complesso. Aveva un sano rispetto per la cultura, che usava in modo strumentale, un occhio straordinario per la pubblicità e un fiuto infallibile per individuare le persone che potessero realizzare quello che lui non era capace di fare. Conosceva perfettamente il suo mestiere e vedere con quale disinvoltura si muoveva durante le contrattazioni per la vendita della lana delle pecore era uno spettacolo. Una volta, gli chiesi come aveva fotto l’azienda a uscire dalla provincia diventando in pochissimo tempo un marchio globale, mentre molte altre fabbriche erano rimaste a pestare i piedi in quelle umide terre venete. Lui rispose: “Semplice, ogni fratello ha un incarico. Io sono l’industriale, Luciano è il venditore, il finanziere è il terzo fratello e il creativo è mia sorella. Non ci scanniamo a vicenda, come in altre famiglie, andiamo perfettamente d’accordo e questo il segreto del successo”.
Così partimmo per Leleque. Soffiava un vento fortissimo, che durò per le tre o quattro ore del nostro trasferimento da Bariloque all’azienda. Finalmente vedemmo un gruppo di pioppi giganteschi, piantati in maniera sfalsata in modo da imbrigliare ogni perturbazione. Sembrava di entrare nell’occhio del tifone, dove regna la calma più assoluta. Senza questi alberi piantati dai gallesi, il vento che soffiava in continuazione avrebbe fotto diventare pazzo chiunque.
Le case erano molto solide, costruite dagli anglosassoni tra il 1920 e il 1930 e parzialmente rifatte con eleganza da un architetto di Buenos Aires. I bungalow erano arredati come casino di caccia, con trofei d’argento vinti dai montoni sparsi ovunque e nella biblioteca si potevano trovare tutte prime edizioni di libri come Vecchia Calabria di Norman Douglas, tutti i testi di Lawrence, come L’amante di Lady Chatterley nell’edizione Lungarno di Orioli, Scoop e Ritorno a Brideshead di Evelyn Waugh e Rivolta del Deserto nella versione abbreviata di T.E. Lawrence.
Quando mi avvicinavo alla libreria per prendere uno di questi magnifici libri, da lontano arrivava il richiamo di Benetton, che diceva sarcastico: “Il lupo perde il pelo ma non il vizio”. Non l’ho mai visto leggere un libro. La sera ci ritrovavamo davanti al fuoco, costruito a piramide, dove era attaccato un quarto di bue, e ogni tanto Carlo andava a tagliare delle grosse fette di carne grandi come mani di gigante.
Un giorno chiamai un taxi e gli dissi che andavo piuttosto lontano. “Quanto lontano:” “Fino a Puerto Monti”. “Ma sta in Cile, e sono 1550 chilometri attraverso le Ande”. “Lei mi porti fin dove può” risposi. È qui che ho cominciato i miei vagabondaggi attraverso l’ America del Sud.
L’uomo dalla voce tonante, di Stefano Malatesta – Neri Pozza editore 2014
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