Venerdì 29 Marzo 2024 - Anno XXII

Viaggio tra guerra e pace, tra Oriente e Occidente

Guerra Ponte di Mostar

Il viaggio che intraprende Marco Travaglini nel suo libro “Bosnia, l’Europa di mezzo”, pubblicato da Infinito edizioni, è una sorta di taccuino di viaggio, con luoghi, personaggi, storie individuali e collettive. Un libro pieno di spunti: dalla storia del passato per riflettere sul presente

Tutti noi ci portiamo dentro qualche immagine dei Balcani in fiamme, Sarajevo assediata, il ponte di Mostar distrutto, le case della Bosnia sventrate dalle cannonate. Per la nostra generazione, cresciuta nelle certezze di una pace europea senza tempo, la Bosnia è stata una rivelazione: la guerra alle porte di casa nostra, poche ore di auto al di là del confine di Trieste; lo sterminio “etnico” di Srebrenica; le colonne di profughi in fuga dalla paura; l’agonia dei campi di raccolta; l’impotenza della comunità internazionale. Come ha scritto nella prefazione lo storico Gianni Oliva, “Marco Travaglini, con intelligenza e penna felice rielabora le sue memorie di viaggio, ognuno ritrova un pezzo di quegli anni e la Bosnia del dramma si trasforma nella Bosnia delle domande. Perché al di là delle esecrazioni, della commozione, della solidarietà, la tragedia balcanica pone quesiti fondamentali per capire il passato e per guardare al presente”.
Proponiamo ai nostri lettori il capitolo “I Ponti di Sarajevo”.

I Ponti di Sarajevo

Guerra Bosnia l'Europa di Mezzo
Bosnia, l’Europa di mezzo, di Marco Travaglini, Infinito Edizioni, pagine 192, € 11,90.

I ponti, per Ivo Andrić, “indicano il posto in cui l’uomo ha incontrato l’ostacolo e non si è arrestato”. Ha scritto: “Di tutto ciò che l’uomo, spin­to dal suo istinto vitale, costruisce ed erige, nulla è più bello e più prezioso per me dei ponti… Appartengono a tutti e sono uguali per tutti, sempre costruiti sensatamente nel punto in cui si incrocia la maggior parte delle necessità umane, più duraturi di tutte le altre costruzioni, mai asserviti al segreto o al malvagio”. I ponti, questi grandi ponti di pietra grigia, erosi dal vento e dalle piogge, con l’erba che cresce nelle loro fessure; e quelli di ferro, tesi come fili vibranti da una sponda all’altra. Per non parlare dei “ponti di legno all’entrata delle cittadine bosniache le cui travi traballano e risuonano sotto gli zoccoli dei cavalli, come le lamine di uno xilofono”. Ma, prima di tutto, “questi” ponti. I ponti di Sarajevo, messi di traverso sul Miljacka, come vertebre dell’immaginaria spina dorsale della città, rappresentata dal letto del fiume. Si possono attraversare da una parte all’altra, lenta­mente o di buon passo (meglio di corsa, piegati in due, quando i cecchini sono in guerra con noi e ci cercano disperatamente con il mirino dei loro fucili). Si possono ammirare le arcate, i parapetti, il selciato, contandoli uno a uno. Per l’autore de Il ponte sulla Drina, premio Nobel per la let­teratura nel 1961 “tutto ciò che questa nostra vita esprime – pensieri, sforzi, sguardi, sorrisi, parole, sospiri – tutto tende verso l’altra sponda… Poiché, tutto è passaggio, è un ponte le cui estremità si perdono… mentre la nostra speranza è su quell’altra sponda”.

Sarajevo è una città d’acqua tra i monti. Ha tre fiumi: il Bosna, che nasce nei pressi di Ilidža, le cui sorgenti sono uno dei luoghi prediletti dai sarajevesi per le loro passeggiate; lo Željezniča, che scorre tra Butmir e Ilidža (il suo nome significa anche “ferroviere” ed è lo stesso che porta una delle squadre di calcio della città) e, infine, il Miljacka, che ha le sorgenti a Pale, nella Repubblica Srpska, attraversa Sarajevo ed è noto per il particolare odore salmastro e per il colore bronzeo delle sue acque.

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La città, all’epoca degli ottomani, vantava sette ponti, tre di pietra e gli altri di legno. Il più vecchio, inizialmente di legno, era il ponte del­lo Zar (Careva Ćuprija), voluto da Isa-Beg Isaković – il primo Sandžak Bey o governatore della regione ottomana della Bosnia – per unire le due sponde del fiume, poi demolito dagli austroungarici nel 1896. Nel tempo la struttura del ponte è cambiata e nei primi decenni del ‘900 fu anche ribattezzato Žerajić, dal cognome di uno dei membri dell’associa­zione irredentista filo-jugoslava Mlada Bosna (Giovane Bosnia) che il 15 gennaio 1910 sparò alcuni colpi di pistola, mancandolo, contro il barone Varezanin, governatore militare dell’Impero austroungarico. Di fronte alla Vijećnica si erge, massiccio e imponente lo Šeher-Ćehajina ćuprija, il ponte del sindaco. È in pietra calcarea e le quattro arcate sono invece in sedra, una pietra simile al tufo, ma molto più dura. Si dice che a farlo co­struire, nel secondo decennio del 1600, sia stato Hadži Husein Hodžić, come dono alla città. Ricostruito nei primi del ‘900, con 48 metri di lunghezza per quattro e mezzo di larghezza è oggi solo pedonale e collega la Biblioteca alla casa del dispetto, l’Inat Kuća.

Guerra Sarajevo ponte Latino
Ponte Latino, Il secondo ponte più antico della città di Sarajevo

Il secondo ponte più antico è in pietra di travertino: il Latinski most, il ponte Latino. L’attuale venne costruito nel 1798 al posto di uno ri­salente al 1565. Da sempre ha collegato il Latinluk, il quartiere latino, con il resto della città. Durante il periodo socialista ebbe però un nome diverso, quello di Princip, cioè del ventenne irredentista che sparò con­tro l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie, la duchessa Sofia, uc­cidendoli entrambi. L’attentato di Gavrilo Princip, nazionalista serbo-bosniaco, il cui obiettivo era liberare la Bosnia dal dominio dell’Impero austroungarico e annetterla al regno di Serbia, rappresentò il casus belli, l’occasione per l’avvio della prima guerra mondiale. Era il 28 giugno 1914 e, una volta di più, la storia con la “esse” maiuscola trovava a Sa­rajevo il luogo dove innescare quello che fu nello stesso tempo l’ultimo conflitto del passato (con le sue carneficine) e il primo moderno in cui si usarono appieno tutti i mezzi di cui si poteva disporre all’epoca, come aeroplani, carri corazzati, lanciafiamme, sommergibili e armi chimiche, tra cui gas come l’iprite.

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Torniamo ai ponti. “Quando penso ai ponti, mi vengono in mente non quelli che ho traversato più spesso, ma quelli su cui mi sono soffermato più a lungo, che hanno attirato la mia attenzione e fatto spiccare il volo alla mia fantasia”, scriveva ancora Andrić. Oggi, a Sarajevo, di ponti ce ne sono ventidue. Dal suggestivo, antichissimo e periferico Kozja Ćuprica, il ponte delle capre, a est della città, sulla via per Istanbul, all’At Plandište, il ponte romano sul fiume Bosna, con le sue sette arcate a tutto sesto in pietra scolpita, fino al Drvenija che, tra i ponti, è il più romantico. Situato vicino al primo ginnasio, era il luogo dove, ai tempi in cui i licei non erano misti e quello maschile si trovava sulla riva opposta a quello femminile, s’incontravano gli innamorati. Il ponte diventava così il testi­mone discreto e silenzioso degli appuntamenti e delle promesse d’amore. Per ognuno ci sarebbero da raccontare storie, aneddoti, curiosità. Voglio soffermarmi ancora su due: Skenderija e Vrbanja. Il primo, ribattezzato con ironia e affetto “ponte Eiffel” perché pare sia stato edificato con lo stesso materiale che servì alla costruzione della torre simbolo di Parigi, è ovviamente in ferro e sostituì, nel 1893, il vecchio ponte di legno. Il secondo, invece, merita una storia a parte.

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