Venerdì 22 Novembre 2024 - Anno XXII

Dalla Patagonia all’Alaska. La grande camminata

La grande camminata

Tra il 1977 e il 1983, George Meegan compì in 2425 giorni la più lunga camminata ininterrotta di tutti i tempi, attraversando l’immenso continente americano per più di 30.000 chilometri. Mondointasca vi propone un assaggio del libro che racconta questa incredibile avventura: “La grande camminata”, Ugo Mursia Editore

La Grande camminata Estusiasta e felice, George Meegan in Alaska
Estusiasta e felice, George Meegan in Alaska

Il pomeriggio del 18 settembre 1983, sul margine settentrionale dell’insediamento della baia di Prudhoe, in Alaska, percorsi gli ultimi chilometri di tundra melmosa verso il limitare del Mar Glaciale Artico, dove immersi le mani nelle gelide acque d’argento. Erano i passi finali di un viaggio durato sette anni. Ce l’avevo fatta. Fisicamente ed emotivamente spossato, caddi in ginocchio e piansi. Fu il giorno più agognato e insieme il più triste della mia vita. Ero giunto al termine di un cammino di più di 30.000 chilometri, cominciato nella Terra del Fuoco, l’estremità australe dell’America del Sud, e concluso qui, sulla riva del Mare di Beaufort, sulla sommità del Nord America. Ero giunto alla fine. Circondato dalla mia famiglia, da qualche giornalista e dagli operai petroliferi accorsi per assistere all’evento, mentre dietro di me le bandiere dei quattordici Paesi attraversati schioccavano desolate al vento, continuavo a fissare, come stordito, le conchiglie e la fanghiglia ai miei piedi.
Frattanto, la memoria ripercorreva all’indietro tutte le fasi del tragitto, fino all’inizio, giù per lo Yukon glaciale e la fascia meridionale delle province canadesi, tra praterie sconfinate e campi di grano dorato, e più giù fino al New England, New York e la costa orientale degli Stati Uniti, e ancora più giù, nel profondo Sud, dove avevo avuto il privilegio di stringere la mano a un Presidente, e indietro fino alla torrida pianura costiera del Messico, e poi l’America Centrale, traboccante di vita e fermenti rivoluzionari, attraverso le infide foreste pluviali del Darién Gap che unisce Panama e Colombia, quindi l’Ecuador e i suoi vulcani slanciati, il deserto e i ripidi passi montani del Perù, poi l’altopiano boliviano il grande plateau andino e più giù fino alle pampas cilena e argentina, e infine di nuovo nella Terra del Fuoco. Mezzo pianeta, sette lunghi anni, gran parte della mia vita di adulto.

La grande camminata

Il viaggio aveva fatto storia. Non solo avevo percorso a piedi l’intero emisfero occidentale (impresa mai realizzata prima), ma ero stato protagonista della più lunga camminata ininterrotta di tutti i tempi. Si trattava, fattore decisivo per me, dell’apice di un sogno realizzato. E allora perché le lacrime, perché quel senso di pesantezza nel cuore? Perché ora ero costretto a dire addio alla mia buona amica, l’inflessibile aguzzina, l’intima compagna onnipresente di oltre novanta mesi di cammino: la strada sotto ai miei piedi.
Sono nato a Hillingdon, nel Middlesex, e ho trascorso la prima parte della mia vita nei pressi di Rainham, nel Kent, a poco più di un chilometro dal colle dove crebbe il grande esploratore sir Francis Drake. Quando avevo meno di un anno, persi mia madre, e poco dopo si dileguò anche mio padre, che mi lasciò alle cure di alcuni parenti, che in seguito mi adottarono. Tutto questo, però, accadde molto tempo fa, in un’epoca che ormai non riesco a rammentare con esattezza. I ricordi più nitidi e durevoli della mia infanzia sono quelli dei giorni spensierati, come figlio della madre e del padre migliori che si possano desiderare. Al pari di molti altri ragazzi inglesi, fin dalla prima infanzia coltivai un’ammirazione ardente per i grandi viaggiatori della storia e i loro racconti di avventura, che non mancavano mai di ammaliarmi. L’idea di un mio viaggio nacque quando ero ancora marinaio alle prime armi su un mercantile, anche se all’inizio non fu che una fantasia frivola. Quando, però, quella suggestione cominciò a sembrarmi una possibilità reale, quando mi convinsi che potevo farlo, capii altresì che dovevo farlo, perché altrimenti sarei rimasto tormentato per sempre dal pensiero della rinuncia. La cosa più dura da sopportare nella vita, non ho dubbi in proposito, è non aver mai vissuto il proprio sogno. Invero, dopo aver vissuto ed essere sopravvissuto a questa avventura, posso affermare con una certa tristezza che la seconda cosa più difficile da sopportare nella vita è aver già vissuto il proprio sogno.

La grande camminata Sulla Pan American Highway nel 1977
Sulla Pan American Highway nel 1977

Nel 1976, quando mossi i primi passi speranzosi della futura traversata, le risorse a disposizione erano assai esigue. Potevo contare solo sui miei risparmi, che ammontavano a circa 8000 sterline, e nessuna sponsorizzazione, salvo un’azienda di scarponi che mi protesse i piedi attraverso due continenti. I preparativi furono essenziali, anche perché non avevo niente da dimostrare, tranne che la cosa si poteva fare. Quanto agli aspetti positivi, prevedevo di vivere grandi avventure.
Certo, non potevo sapere che avrei trovato anche la mia donna. Yoshiko la conobbi in Giappone, durante una franchigia. Non lo avrei mai detto, eppure stette al mio passo e si dimostrò all’altezza della mia folle camminata al di là di ogni possibile previsione. Purtroppo, dopo esserci sposati in Argentina, fu costretta a tornare a casa, ma solo perché era incinta del nostro primo figlio. E per l’intera durata del tragitto ma soprattutto alla fine, quando lei e i bambini mi seguirono in macchina per l’ultima tappa, fino all’Artico ho sempre ritenuto che quello fosse il nostro viaggio, non solo il mio.
Fu questa consapevolezza, oltre all’intenso amore per la casa (paradossale, non lo metto in dubbio, per uno che ha passato tanto tempo sulla strada), a sostenermi nelle ore più oscure e lunghe e a spingermi ad andare avanti. Il primo bagliore dell’idea mi venne quando non avevo neppure diciassette anni, durante la mia prima traversata d’alto mare, a bordo del piroscafo Trecarne. Una sera, nel caldo rovente del Mare Arabico, con la nave che beccheggiava alla fonda, ero disteso nella mia cuccetta e fissavo lo sguardo su una carta del mondo che oscillava lentamente di fronte alla paratia. Questo mi portò a riflettere: se il vecchio Trecarne, con i suoi miseri dieci nodi (appena più veloce del passo di chi fa jogging), era in grado di doppiare i capi di tutto il mondo e in poche settimane coprire un’area tanto ampia su quella mappa così seducente, di certo, avendo tempo a disposizione e un pizzico di sana avventatezza, non sarebbe tanto assurdo pensare di percorrere l’intero pianeta a piedi.

La grande camminata Ancora Meegan sui ghiacci dell'Alaska
Ancora Meegan sui ghiacci dell’Alaska

Il sogno rimase a fermentare per i due o tre anni seguenti, durante i quali girai il globo in entrambi i sensi, riuscii a guadagnarmi la promozione a secondo ufficiale e, alla fine, i soldi per finanziare l’impresa. Arrivai a conoscere a fondo i porti di tutto il mondo e percorsi ogni rotta possibile, da Cardiff a Calcutta, da Southampton a Zanzibar. Ma per quanto amassi viaggiare per mare, mi ero reso conto di desiderare con tutto me stesso quelle terre esotiche di là dell’orizzonte, che continuavano ad ammaliarmi. Nel solco della grande avventura propria del mio Paese, bramavo con intensità di dare il mio contributo a quella tradizione, e forse anche di fare la storia. Girare intorno al globo mi sembrava «logico», ma era già stato fatto e pertanto non poteva rispondere al bisogno di priorità geografica. No, io sarei andato in verticale! Questa fu la nuova foggia che assunse il mio piano, il mio sogno appassionante. Temendo le stesse manie di grandezza, cercai un compagno tra i colleghi di bordo e gli amici, ma tutti avevano già in programma metodi migliori per porre fine alla propria vita.
Qualcuno, invece, mi rispose che ero pazzo, senza tanti giri di parole. Quanto a mia madre, disse che stavo solo attraversando un’altra fase difficile della mia vita, mentre l’unico commento di mio fratello Anthony fu: «Attento a non prenderti malattie». Quando ero sul punto di rassegnarmi ad andare da solo, conobbi Yoshiko. Ci piacemmo fin dall’inizio e, sebbene nessuno dei due parlasse la lingua dell’altro, «chiacchierammo» a gesti per ore, sforzandoci di usare quelle poche frasi standard prese dal suo dizionarietto inglese-giapponese. Ora, non mi era mai passato per la testa che una donna fosse in grado di compiere un viaggio del genere né che volesse provarci. Sul serio, tanto che nei primi giorni della nostra amicizia nemmeno le menzionai l’argomento. Eppure, quando feci qualche vago accenno al mio piano scellerato, i suoi entusiastici cenni di assenso sembrarono riflettere un vivo interesse per la prospettiva (o era solo buona educazione?). Ad ogni modo, eravamo ancora a livello di conversazione futile (se poteva definirsi conversazione, in quelle circostanze).

La grande camminata La prima esperienza insieme, la scalata al Monte Fuji
La prima esperienza insieme, la scalata al Monte Fuji

Quando dovetti ripartire con la mia nave, demmo inizio a una corrispondenza assai appassionata. Qualche mese dopo, invece, tornai in Giappone, dove provai a fare un «test». Senza spiegarle il motivo esatto, le proposi di scalare insieme il Monte Fuji. L’impresa si rivelò un successo, quantomeno per Yoshiko, che dovette aiutarmi a salire in cima! Nelle settimane seguenti, a mano a mano che il nostro rapporto si faceva più intimo, sentivo che era arrivato il momento di prendere una decisione definitiva riguardo all’eventuale compagnia per la mia spedizione. Una sera, mentre eravamo seduti a sorseggiare una bibita in un bar del porto, andai subito al dunque e chiesi alla mia incantevole ragazza dai capelli corvini di accompagnarmi nell’impresa (il mio discorso cominciò con: «Ehm…, ecco…»). E Yoshiko accettò!
Insomma, la faccenda era sistemata. Dopo aver definito i primi dettagli sull’organizzazione, tornai in mare e, quando finalmente riuscii a mettere da parte denaro a sufficienza per coprire le prime spese, Yoshiko venne in Inghilterra per i preparativi finali. Poco dopo il suo arrivo a Rainham, tuttavia, fu evidente che c’era stato un piccolo malinteso, dovuto almeno in parte a un errore di traduzione. La mia cara, dolce Yosh aveva sempre pensato che avremmo intrapreso un viaggio in autobus. Superato il trauma iniziale, però, riuscimmo ad adeguarci al nuovo stato delle cose, del resto eravamo innamorati… E Yoshiko aveva un temperamento energico. Quanto a me, be, ero contento che almeno fosse disposta a provare.
C’erano molte decisioni da prendere e occorreva provvedere ai preparativi, a cominciare dal punto di partenza. Iniziare dalla cima del continente e scendere dall’Alaska all’Argentina, o viceversa? L’Argentina sembrava un punto di partenza ottimale perché, quando si fosse esaurita la mia piccola riserva finanziaria, speravo di essere già nelle più ricche terre del Nord. Lì avrei avuto anche più probabilità di ristabilirmi e recuperare le forze, dopo aver percorso tutta l’America Latina, che prevedevo fosse il cimento maggiore. Alla fine si rivelò una scelta non solo razionale ma anche fortunata, perché la rotta inversa mi avrebbe portato in Argentina (io, un inglese) proprio all’apice della guerra con l’Inghilterra per le Falkland. Talvolta sembra che basti un semplice tiro di dadi per determinare il successo o il fallimento di un progetto.

La grande camminata Il libro del leggendario Sebastian Snow
Il libro del leggendario Sebastian Snow

Ne Yoshiko ne io eravamo in grado di portare le provviste in spalla per l’intera Patagonia e oltre: lei, semplicemente perché il peso sarebbe stato eccessivo, io, perché a lungo andare un carico del genere sarebbe stato fonte di dolorose piaghe sulla schiena. La soluzione mi venne in mente durante il mio ultimo imbarco, quando il mercantile pachistano Ornar era all’ancora sul fiume Tyne, a South Shields. In cambio di una bottiglia di whisky e di una cassa di Newcastle Brown, i disoccupati del Brigham and Cowan Dry Dock furono ben lieti di procurarmi due grossi porta zaini smerigliati a rotelle, uno rosso e l’altro blu, ognuno con maniglia estensibile. Assomigliavano a due golf cart, solo più grandi del normale.
In seguito acquistammo attrezzatura da campeggio e provviste di base, e passammo intere settimane a studiare con scrupolo le carte per tracciare l’itinerario (a dire il vero, durante il cammino avremmo ampiamente trascurato quello stesso itinerario e ci saremmo affidati solo alle mappe trovate lungo la strada). Infine, speravo con tutto il cuore di poter ricevere qualche consiglio dal grande viaggiatore di Eaton, il leggendario Sebastian Snow, che all’epoca era ancora l’unico uomo ad aver percorso a piedi l’intero Sud America, un viaggio di cui narra in uno dei suoi libri, The Rucksack Man. Snow aveva impiegato venti mesi e verso la fine della traversata aveva anche rischiato di morire. Tornato a casa, solo qualche anno prima, era ormai ridotto a un relitto, mezzo pazzo e denutrito.
Snow accettò di incontrarmi e io mi precipitai a fargli visita a casa della madre, nel Devon, sua regione d’origine. Le mie aspettative non andarono deluse. L’intrepido viaggiatore si rivelò un fiume di suggerimenti e informazioni preziose. Verso la metà del nostro colloquio, si voltò verso la stanza attigua. «Mamma, posso avere un’altra birra?», ringhiò il grande esploratore, adesso ristabilitesi del tutto dai travagli dell’ultima avventura, e corpulento come un direttore di banca.
«No, no, Sebastian! E, a proposito, non dimenticare di portare fuori il barboncino della signora Poodle per la sua passeggiata serale.»
«Mamma, per favore», piagnucolò Sebastian alzandosi in piedi. «Ho quarantadue anni!»
Non essendovi risposta, Snow tornò a sistemarsi sulla sedia e alla fine volle dare uno sguardo al carretto porta zaino (a mio giudizio essenziale per la riuscita della spedizione) che avevo portato con me perché lo esaminasse e, come speravo, mi confermasse la bontà della scelta. Il giudizio fu breve e concreto: «E che vorresti farci con quella cosa?».

La grande camminata di George Meegan, UgoMursia editore,  472 pagine.

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