Un po’ casa e un po’ albergo, dove gli ospiti soggiornano in camere sparse in un borgo storico o in campagna vicino a un paesino, con due simboliche hall: una interna con la reception per la consegna delle chiavi e l’altra esterna, nella piazza dove vive il vicinato. Così Giancarlo Dall’Ara presidente dell’Adi, l’Associazione nazionale degli alberghi diffusi, ci racconta questa realtà ancora poco nota tra i turisti nonostante si sia affacciata nel panorama italiano dell’ospitalità dieci anni fa. Non sono bed&breakfast né agriturismi né country house. “Molti equivocano – sottolinea Dall’Ara – gli alberghi diffusi sono alberghi e per gestirli occorre una licenza alberghiera. La differenza, rispetto alle strutture tradizionali, è che quello diffuso è una realtà orizzontale”, cioè l’albergo non si costruisce ex novo, ma si utilizzano le strutture preesistenti di un centro storico abitato a condizione che siano molto vicine tra di loro, che la gestione sia unitaria e che ci siano spazi comuni per i clienti come la sala tv, il punto ristoro, la reception”.
Sull’esempio delle pousadas in Portogallo
L’idea è venuta a Dall’Ara negli anni Ottanta girando per le regioni italiane come consulente di marketing turistico. Il nome gli è stato suggerito in Friuli e, ammette, il contributo alla messa a punto di questo modello gli è arrivato un po’ da tutte le regioni. In mente aveva l’esempio delle famiglie allargate di una volta che vivevano in più stabili e all’inizio il modello culturale al quale si è ispirato era quello delle pousadas portoghesi, gli alberghetti sorti all’interno di palazzi e conventi. “Per vederle bisogna andare in Portogallo perché quel modello di ospitalità ha radici lì. La stessa cosa ho pensato di fare per l’Italia proponendo un modello completamente italiano, originale”. Un progetto ambizioso: pensare all’albergo diffuso dovrebbe rimandare, nelle intenzioni del presidente, all’Italia e a una sua specificità. Qualche risultato positivo si è già visto. All’estero, nel tirolo austriaco e in Croazia, sono nate delle realtà che usano il termine italiano “Albergo diffuso”, “un po’ come noi facciamo per il bed & breakfast”. Ma com’è la situazione in Italia? “Il sistema politico italiano è molto conservatore – precisa Dall’Ara – si considera come formula nuova il villaggio turistico quando il primo è stato aperto nel 1950. Da noi non esiste una norma nazionale che riconosca l’albergo diffuso – sottolinea il presidente dell’associazione -. La questione è demandata alle regioni e per ora sono 8 quelle che hanno emanato una legge: la prima è stata la Sardegna nel ’98, seguita da Friuli, Marche, Umbria, Emilia Romagna, Trentino, Liguria e Calabria”.
L’albergo diffuso piace agli stranieri
Finora gli alberghi diffusi che gravitano intorno all’associazione di Dall’Ara sono circa 50 e “quello che chiediamo alle regioni è una rete normativa e una classificazione con più o meno stelle a seconda delle
varie tipologie di albergo che stanno nascendo”. I tipi in effetti sono più di uno. C’è l’albergo diffuso che nasce in un centro “per frenare lo spopolamento dei borghi” e comprende anche strutture di lusso da 300 euro a notte, e poi ci sono gli alberghi diffusi di campagna vicini sempre ai centri abitati. “Quello rurale – dice Dall’Ara – ha tariffe competitive; in Friuli ma anche in Sardegna con meno di 40 euro si dorme e si fa colazione”. E la clientela di riferimento? Da una recente indagine realizzata dall’Adi, il 33 per cento degli ospiti ha un’origine straniera (Usa, Australia, Canada) mentre Lombardia, Piemonte e Veneto sono al primo posto tra i bacini di provenienza italiani. “Si tratta di turisti – dice Dall’Ara – che non vogliono menu, camere, souvenir fatti apposta per turisti, ma che desiderano sperimentare lo stile di vita dei residenti del piccolo centro”. L’obiettivo pare essere quello di “veicolare la cultura dei luoghi” e in questo senso la piazza è vista come la seconda hall dell’albergo.
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