Negli anni Cinquanta del secolo scorso, lo Yucatàn era pressoché sconosciuto. Si deve al suo plurisecolare isolamento se la penisola ha conservato, nonostante il boom turistico che l’ha investita negli ultimi due decenni, la propria identità. Identità che si riassume in tre epoche: l’epoca Maya l’età coloniale che ha lasciato città, conventi fortificati e chiese ornate da preziosi “retablos” e gli anni del boom economico dovuto al sisal, una qualità di agave che fece la fortuna della penisola.
Merida, capitale dello stato dello Yucatàn; Izamal, località sacra ai Maya e tuttora ai pellegrini che adorano la sua Virgen; Valladolid, città a misura d’uomo e ancora poco turistica e le belle tenute agricole di origine coloniale dove fu coltivata e lavorata l’agave sisalana; ecco le principali tappe di un itinerario defilato e curioso che permette di passare le vacanze nello Yucatàn anche in agosto (o a Natale) senza incontrare (quasi) nessuno. E scoprire che la penisola bagnata dalle acque caraibiche, colonizzate dai turisti, ha ancora un’anima anche se difficile da individuare al primo impatto.
Cabezones, “teste grosse”
Gente particolare “los yucatecos” che abitano la penisola, fieri della loro diversità dal resto dei messicani. Nella monotona piattaforma calcarea coperta da vegetazione di un verde splendente solo nella stagione delle piogge, che è brevissima, gli abitanti si sentono “yucatechi” prima che messicani. Anzi, a volte si pensa addirittura che non siano messicani ma di un’altra razza, perché hanno la testa grossa: li chiamano “cabezones”.
Ma responsabile di questo stato di cose è soprattutto il lungo isolamento della penisola che, fino al secolo scorso, manteneva unito il suo territorio, oggi diviso nell’omonimo stato e in quelli di Campeche e Quintana Roo.
Le ragioni? La totale mancanza di vie di comunicazione fino a epoche recentissime; degli anni Cinquanta del Novecento sono il “Ferrocarril del Sureste” e la prima strada che unirono Merida, la città principale della penisola, a Città del Messico. Prima, atterravano solo idrovolanti, quelli della Mexicana de Aviación, dal 1928. Così la cultura dello Yucatán ebbe forti influenze esterne soprattutto all’inizio del secolo scorso, quando le navi salpavano per il Nord America o per l’Europa cariche di sisal (dal nome del porto yucateco dal quale veniva esportato).
Merida, la “ciudad blanca”
Batte a Merida il cuore della penisola yucateca. Fondata a metà del Cinquecento sui resti della maya T’ho e battezzata Merida dai conquistadores in memoria dell’urbe spagnola, è chiamata “ciudad blanca” per le sue chiare architetture coloniali, ma anche per la candida divisa dei suoi uomini.
Che sia la principale città dello Yucatán, con circa un milione di abitanti, non lo dà a vedere: tranquilla, piacevole, è la tipica città coloniale d’America dalla pianta a scacchiera, con la grande piazza centrale ombreggiata da “laureles”, i ritmi lenti del tropico, gli uomini seduti al fresco a chiacchierare.
Trascorrere qualche giorno a Merida, ottima base per la visita della regione, introduce alla cultura yucateca: all’artigianato, la musica, le danze, la gastronomia, ritenuta da molti la più sofisticata del Messico. Da provare la “sopa de lima”, minestra a base di pollo, tortilla, pomodoro, impregnata dal gusto forte del “lime”; la “cochinita pibil”, carne di maiale avvolta in foglie di banano e condita con una salsa aromatizzata con spezie; il “Poc Chuc”, sottili fette di carne di maiale speziate alla griglia; i “papadzules”, che sono “tacos” con un ripieno a base di uova e i “panuchos”, ovvero tortillas fritte guarnite da pezzetti di tacchino, pomodoro e cipolla.
Da vedere, nel Museo de Artes Populares, di fronte all’ex monastero di La Mejorada in calle 59, tra calle 48 e 50, la collezione etnografica. Da frequentare il mercato, raggiungibile da calle 67, con artigianato yucateco: amache, “guayaberas” (camicie maschili) “huipiles” (bluse femminili) “rebozos” (scialli) “fajas” (alte cinture di tessuto) e abiti ricamati a mano a vivaci colori.
Con trentacinque gradi, tra le dieci di mattina e le quattro di pomeriggio, i momenti migliori per vedere la città sono le prime ore di luce e il tramonto. Nella centrale plaza Mayor sono i segni del passato cittadino: dell’epoca coloniale il palacio Municipal, il palacio de Montejo, la Cattedrale, di fine Ottocento il palacio de Gobierno, che va visto per capire qualcosa della storia della penisola.
I “murales” che Fernando Castro Pacheco realizzò al suo interno negli anni Settanta, raccontano la difficile conquista spagnola, l’accanita resistenza degli indios, la dominazione coloniale poi un episodio, emblematico: nel XVIII secolo Jacinto Canek fu legato a quattro cavalli spagnoli e morì squartato.
In suo nome si sollevò l’intera penisola a metà del secolo XIX: fu la “Guerra de Castas”, il più grave conflitto sociale in questa terra dopo la conquista spagnola. Per un breve periodo un popolo che mai aveva accettato la sottomissione, ottenne il controllo di tutto lo Yucatán. Ma la conclusione fu un massacro e per la fine del secolo gli indigeni furono ridotti in una posizione economicamente e culturalmente subordinata.
Valladolid, la “ciudad sin prisa” (senza fretta)
Valladolid fu tra le località più colpite durante la Guerra de Castas, che interruppe per sempre l’epoca di gloria di quella che oggi per importanza è la seconda città dello Yucatàn. Se dell’insediamento maya la cittadina ha conservato il nome, Zaci, attribuito oggi al grande pozzo naturale (cenote) scoperto nel centro urbano durante la Rivoluzione messicana, immerso in un parco e con acque scure e impressionanti, sulle rovine di Zaci gli spagnoli eressero il convento di Sisal, oggi fuori città.
Fondata nel 1543 da Francisco de Montejo (il Giovane) dell’epoca coloniale Valladolid ha mantenuto l’aspetto del centro con le strade che si intersecano perpendicolarmente e la grande piazza dove sorge la cattedrale e si svolge gran parte della vita cittadina.
Qualche isolato a sud-ovest, la chiesa-fortezza di San Bernardino, eretta nel XVI secolo sopra uno dei “cenotes” della località: quarantacinque metri per dieci la chiesa, venti metri per lato il chiostro che è uno dei più grandi dello Yucatàn dopo quello del
convento di Izamal. Nella chiesa, “retablos” di pregio come quello
dedicato a San Antonio, del XVIII secolo e un’immagine della Vergine di Guadalupe. A centosessanta chilometri a sud-est di Merida, Valladolid, estranea ai grandi flussi turistici dello Yucatán e valido punto di partenza per la visita di Chichén Itzà, merita una sosta. Per la sua piacevole atmosfera di cittadina messicana di provincia nella quale è facile scambiare due parole con gli abitanti, assaporando i ritmi “sinprisa” (senza fretta) e le specialità gastronomiche della migliore
radizione yucateca. Magari nell’incantevole patio dell’Hosteria del Marqués, nella piazza centrale della città.
Maya: Izamal, la “ciudad dorada”
Porta il colore del mais come vuole la tradizione e il granturco, si sa, è l’alimento sacro dei Maya di ieri e di oggi. Così Izamal, a una settantina di chilometri da Merida, è una città venerata fin dall’origine, meta oggi di pellegrini in nome della Virgen de Izamal, patrona dello Yucatán. L’ora più suggestiva per visitare la Ciudad dorada è il tramonto. Si rivela allora una delle più belle città coloniali della penisola (restaurata in anni recenti) che risale al XVIII secolo. Ma i Maya ci venivano già in pellegrinaggio lungo i grandi “viali bianchi” e adoravano Itzamná, sommo sacerdote, chesarebbe stato sepolto qui e poi divinizzato anche se, dei dodici templi esistenti all’epoca maya, rimangono oggi poche tracce. Tra tutti, il grande tempio “Kinich Kak Mo” sovrastava la pianura yucateca come il più imponente edificio della penisola. Oggi domina la cittadina lo scenografico convento francescano di San Antonio de Padua, uno dei più ampi monasteri del Messico.
Fu innalzato con le pietre dei templi, simile a una fortezza, nel caratteristico stile del secolo XVI dal famigerato vescovo Diego de Landa, che si apprestava a catechizzare grandi masse nel superbo atrio porticato. Perseguitò gli indigeni, forse li torturò, poi, curiosamente, scrisse la più significativa testimonianza sulla cultura maya della regione, la “Relación de las cosas de Yucatán”. Non prima di avere dato alle fiamme (nel 1562) la storia dei Maya affidata ai manoscritti pre-ispanici presso il convento di Mani.
Fondato intorno alla metà del XVI secolo, il monastero di Mani, a un centinaio di chilometri da Merida, è uno dei più ampi dello Yucatàn, dotato a lato della chiesa di una grande “capilla abierta”, una di quelle cappelle aperte su un lato, realizzate per richiamare l’uso rituale delle piazze davanti ai templi pre-ispanici cari agli indigeni.
Si tratta del principale monastero di quelli che oggi si visitano lungo la cosiddetta “ruta de los conventos” che segue a sud di Merida il cammino di evangelizzazione dei francescani, a partire dal XVI secolo. Tra i diversi complessi conventuali, molti dei quali caratterizzati dall’aspetto fortificato: Acanceh, che conserva anche rovine di piramidi e del cosiddetto palacio de los Estucos; Tekit, Tekoh, Telchaquillo, Mama, con la chiesa seicentesca dal bel portale; Teabo, con l’ “iglesia de San Pedro e San Pablo” che conserva nella sacrestia affreschi di fattura europea tra i più belli della penisola e resti del chiostro; Oxcutzcab, che ha un’importante chiesa di inizio settecento (bella la facciata e il “retablo” all’interno) e Ticul, conosciuto più per la produzione artigianale di ceramica e “huipiles” che per l’antico convento del quale conserva solo la chiesa seicentesca.
L’agave verde dello Yucatàn
L’agave sisalana è una varietà di agave – nota come “henequén” in Messico – la cui fibra fu usata per fabbricare cordami che Merida, all’inizio del secolo scorso, esportava a New York e da lì in tutto il mondo. Chiamata “oro verde”, diede avvio all’epoca dello splendore della penisola. Le “haciendas” (tenute rurali) che dal secolo XVI abbondavano nella regione, sostituirono alla coltivazione di mais e zucchero quella dell’henequén.
Merida divenne la capitale mondiale del sisal e cambiò faccia arricchendosi di palazzi, architetture liberty e viali alla francese, imitando con il Paseo de Montejo niente meno che gli Champs Elysées; fu soprannominata la “Parigi del Messico” e mandò i suoi cittadini benestanti a studiare a Parigi, a New Orleans, a New York, città queste che erano sulla “ruta de los translatlanticos”, più facili da raggiungere che il resto del paese.
Ma così come era arrivata, la ricchezza scomparve: negli anni Sessanta del Novecento l’oro verde era crollato sui mercati mondiali, sostituito dalle fibre sintetiche. I segni sono rimasti indelebili nel paesaggio dello Yucatán: le “hacienads henequeneras” abbandonate, restaurate e adibite a hotel o ripensate in forma museale. Come Chenkù, a nord-est di Merida, o San Ildefonso Teya, a est della città, o San Antonio Cucul o Xcanchakàn.
Tra le tante che punteggiano la penisola, l’Hacienda Yaxcopoil, a trentatre chilometri dalla capitale yucateca, sulla strada per Uxmal, merita una visita; fu una delle più importanti per grandezza e sontuosità.
Nell’epoca d’oro del sisal fu dotata dei macchinari per la lavorazione della fibra tessile, di officine, stanze d’imballaggio e botteghe. Oggi, nei resti pre-ispanici, nelle architetture del XVII secolo, nelle decorazioni classicheggianti che impreziosiscono gli edifici, è testimonianza dei tre grandi periodi dello Yucatán: l’epoca Maya, l’età coloniale e l’auge dell’henequén.
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