Aringhe. Tutto dipende da loro. E tutto comincia con il loro arrivo, nei fiordi frastagliati di fronte alle isole Lofoten, all’inizio di ogni ottobre.
Le aringhe si portano dietro le orche e le orche attirano a loro volta studiosi e appassionati del mare. Ecco perché la loro presenza è così importante.
Alle Lofoten, infatti, non si viene per le aringhe, ma per vedere le orche.
Centinaia di esemplari che migrano sino al Tysfjord, proprio di fronte al piccolo arcipelago norvegese: arrivano in ottobre e se ne vanno a fine gennaio. Ogni anno. Almeno sino a quando le aringhe continueranno a preferire questi mari e sino a quando la corrente calda del Golfo continuerà a restare calda e a rendere abitabili queste terre a nord del Circolo Polare Artico.
Da Svolvaer verso il mare aperto
Le Lofoten, quindi, in inverno sono impegnate in safari in mezzo al mare, le cui uniche armi concesse sono binocoli e obiettivi fotografici.
Si comincia alle nove del mattino, quando a queste latitudini è ancora notte fonda e si accendono solo le luci del “Bacalao”, un pub di Svolvaer che per l’occasione trasforma il suo piano superiore in una piccola sala conferenze dove Cathy Harlow, una donna inglese che in estate scrive libri e in inverno rincorre le orche, racconta tutti i segreti di questi eleganti mammiferi, con l’entusiasmo di una ragazzina.
Alle dieci e mezza si parte, ci si infila in immense tute termiche che riparano dal vento e si sale a bordo di un piccolo battello, in rotta verso il largo.
Ed è da qui che ci si accorge, finalmente, che il sole esiste anche da queste parti; è soltanto un po’ più pigro che altrove. Si alza svogliato sopra la linea dell’orizzonte e si ferma ad aspettare, forse, che l’aria si scaldi un po’. Poi, ancora infreddolito, fa uno sforzo per uscire dal suo torpore; sbadiglia e riesce a stirarsi tra le strisce di nuvole che gli girano intorno, colorandole di rosa, di viola, di azzurro. La luce è sbiadita e lattiginosa. L’aria è così gelida e pulita da dare davvero la sensazione di pungere la pelle, di entrare nei polmoni e solleticarli, di fare bene al corpo e allo spirito.
Sotto un sole infreddolito, ecco le orche!
E’ ormai mezzogiorno quando si rende conto che quella luce incerta è ciò che di meglio il sole riesce a fare; nonostante il cielo sereno e le previsioni buone per il fine settimana. Da queste parti è così e bisogna accontentarsi di restare con la sensazione che sia sempre alba e che il tempo non scorra.
Mentre, invece, è il cuore del giorno; il momento migliore per trovarsi al largo e scorgere in lontananza le prime pinne nere e le prime sagome arrotondate che sfiorano la superficie del mare.
“Eccole!” urla finalmente Cathy dalla prua e il battello si inclina tutto su un lato per lo spostamento improvviso dei suoi passeggeri. Sono tante, tantissime, ma in fondo l’avevano spiegato. Le orche hanno un’indole vagamente latina, non si staccano mai dalla loro famiglia e fanno tutto insieme; quindi, quando ne vedi una inevitabilmente ne vedi almeno una decina.
Qualche gruppo si fa rincorrere, spuntando ogni tanto dalla superficie; qualcun altro si mostra subito insofferente e sparisce sott’acqua, dove ha un’autonomia anche di un paio di ore. Altre orche, invece, sono molto curiose e si avvicinano sino a pochi metri dall’imbarcazione; aprono la bocca ed emettono i loro versi delicati, disarmanti.
Non ti aspetti un verso così dolce da un animale tanto grande e imponente.
E tu passi dalla poppa alla prua con una disinvoltura mai vista, nonostante la tuta termica che ti fa sentire un palombaro. Non ti riempi mai gli occhi abbastanza e dimentichi un film visto quando eri bambino, che ti raccontava che le orche sono tutte assassine…
Uomini, uccelli e orche; tutti a caccia di aringhe
Quando le orche si mostrano abbastanza amichevoli, ti fanno indossare un’altra tuta, molto più termica della prima e ti fanno salire su un piccolo gommone che sembra muoversi in punta di piedi in questo mare stranamente piatto, nero come fosse un’immensa macchia d’inchiostro, persino inquietante.
Il gommone si sposta lentamente e segue il volo confuso di centinaia di gabbiani e di aquile di mare, che non perdono di vista un peschereccio e le sue reti colme di aringhe. I pescatori in cerata gialla, incappucciati e trafelati, caricano le reti sul ponte; i pesci cadono intirizziti nella stiva e gli uccelli volano in cerchio nervosi, impazienti, eccitati. Mentre, in mare, un paio di orche nuotano intorno al peschereccio come fossero avvoltoi. E un silenzio ovattato e surreale avvolge ogni cosa.
E’ a questo punto che il sole ha un altro brivido di freddo. Manda un ultimo raggio di luce per illuminare di rosa un cielo quasi spento e poi, lentamente, si accartoccia e sparisce sotto l’orizzonte.
Le isole Lofoten sono montagne innevate cadute in mare; cime imponenti che si specchiano nell’acqua e che riflettono la luce fioca che se ne sta andando.
Le orche si allontanano e il battello riprende la sua rotta per Svolvaer: sono le due e mezza del pomeriggio e sembra già notte fonda.
Lofoten, vita al “rallentatore”
Svolvaer è la capitale di queste sette isole sparpagliate di fronte alla costa norvegese, poco più di quattromila abitanti e un numero curiosamente alto di banche e ipermercati. Le strade sono ricoperte di ghiaccio, i tetti delle case di neve,
mentre gli enormi tralicci di legno su cui in primavera vengono messi i merluzzi a seccare, per trasformarli in stoccafissi ed esportarli in tutta Europa, sono vuoti. scheletri inutili e sottili esposti al vento.
Le abitazioni sono belle, nuove o comunque restaurate da poco; le finestre hanno le tende aperte e una luce sempre rivolta verso l’esterno, quasi a voler mostrare a chi passa gli arredi caldi, il legno e i colori scandinavi di quelle stanze. Ogni finestra è un piccolo punto luce e ogni casa è un insieme di luci.
Eppure, al di là di quei vetri illuminati non c’è nessuno; non una persona che si muova nella stanza, una famiglia che faccia intuire un frammento di vita quotidiana, un rumore qualsiasi. La città è avvolta in un silenzio pesante e passeggiare per il paese può diventare persino noioso.
Ma poi si entra in uno dei centri commerciali di cui la cittadina va così fiera e finalmente succede qualcosa. Si incontrano persone, anche se dai movimenti comunque lenti e pacati, assopiti da un’oscurità precoce, da giornate troppo corte e da un sole che non ha saputo riscaldarli. Comprano carne di balena, salmone affumicato, merluzzo e agnello; poi tornano in fretta nelle loro case silenziose e si lasciano dietro il freddo. Sembrano semplici comparse, su questi pezzetti di terra dove è la natura a recitare il ruolo principale.
La magia dell’aurora boreale
Alle sette è già ora di cena, in uno dei tanti ristoranti tipicamente impregnati di odore di stoccafisso, caldi e accoglienti come sanno essere qui tutti gli interni.
Ma la giornata non è ancora finita; camminando per una mezz’ora lungo un sentiero appena tracciato nella neve fresca, ci si allontana dalle mille luci cittadine, si raggiungono le colline più alte e si scopre che il cielo è pieno di macchie.
Bianche e opache, a volte anche rosse, verdi e gialle; si muovono, creando figure geometriche, cerchi perfetti, poi ellissi, poi archi e poi ancora linee rette e parallele, puntini, flash intermittenti e poi più nulla. Qualche minuto con i piedi sprofondati nella neve e lo spettacolo ricomincia, ogni volta diverso. Il cielo è ancora una volta il palcoscenico di un fenomeno naturale – l’aurora boreale – che ogni sera sa rendere emozionanti queste lunghe notti invernali.
L’attesa delle donne
Il giorno seguente si annuncia con un’altra alba rosata. Il sole ricomincia i suoi movimenti pigri sulla linea dell’orizzonte, colora di viola e di azzurro carta da zucchero le nuvole che gli girano intorno, le montagne innevate, le onde provocate dai pescherecci diretti al largo.
All’uscita del porticciolo di Svolvear c’è uno scoglio e sullo scoglio una statua; ma bisogna aspettare la luce delle undici per intuirne la forma. E’ una figura femminile, con i capelli e la veste mossi dal vento, una mano allungata verso il mare e gli occhi persi sull’orizzonte. E’ la statua dedicata alla moglie del pescatore, sempre in attesa che il suo compagno torni dai mari agitati di queste latitudini. Ci si dimentica spesso di lei; eppure, mentre i pescherecci tirano velocemente su le reti cariche di aringhe e merluzzi, è proprio lei a preoccuparsi di tenere le luci delle finestre accese.
Per ricordare al pescatore dov’è la sua casa. E forse anche per convincere gli stranieri che il freddo è soltanto fuori. E che comunque, dopo un po’, si impara a non sentirlo più.
Dormire nelle palafitte
Si chiamano “Rorbuer” e sono piccole case in legno, costruite lungo la costa delle Lofoten. Palafitte metà in acqua e metà sulla terraferma, usate per diversi secoli dai pescatori stagionali che venivano qui per la pesca del merluzzo.
Quando i pescatori decisero che era più conveniente stabilirsi sulle Lofoten, le piccole palafitte dai colori vivaci rimasero vuote per parecchi decenni.
Solo nel 1960 si cominciò a usarle per i turisti e oggi è quasi un “must” dormire in una delle tante rorbuer delle Lofoten. Non semplici stanze, ma veri e propri mini appartamenti, con una cucina dotata di tutto, un soggiorno, un ingresso indipendente e una bellissima vista sul mare.
Informazioni turistiche
Le palafitte rosse “Svinoya Rorbuer” sono a Svolvaer – telefono 0047 76069930, www.svinoya.no
Per organizzare altre escursioni in barca intorno alle isole, camminate sulla neve fresca con racchette o sci da fondo e passeggiate notturne per vedere l’aurora boreale, contattare Lofoten Aktiv (la guida si
chiama Jann Engstad) tel 0047 76078910 www.lofoten-aktiv.no
Per avere maggiori informazioni sulle isole Lofoten: Ufficio del Turismo della Norvegia
tel 02 85451460 www.visitnorway.com
Leggi anche: