La discesa è rapida e gli occhi cominciano man mano ad abituarsi all’oscurità.
Giunti alla stazione d’arrivo, inizia il giro. La guida non è una persona qualunque, è un ex minatore e il Big Pit ha rappresentato davvero per molti anni la sua vita, quando, sino alla fine degli anni Ottanta, era una delle principali miniere di carbone del Regno Unito. Superato come combustibile, perché inquinante e antieconomico per le finanze Reali, l’estrazione del carbone cessò gradualmente in tutto il Galles.
Fu così che i minatori del Big Pit, dopo una serie di pesanti e infruttuose lotte sindacali che ebbero notevole rilievo sulla stampa europea, affrontarono la chiusura della miniera costituendo una società che ora gestisse l’attività turistica.
Una vita in “nero”
Chi meglio di coloro che quotidianamente avevano vinto la paura, il pericolo, il buio, la fatica, l’angoscia per la sorte propria e dei compagni, avrebbe potuto spiegare cosa vuol dire lavorare in miniera? Lo si capisce quando, a metà percorso, ci si ferma in una galleria e si prova a spegnere per qualche minuto le deboli luci delle lampade.
Si “vede” il buio: totale, assoluto, paralizzante.
Istintivamente si rimane in silenzio e gli unici rumori sono il ritmo del respiro che diventa sempre più lento e il battito del cuore che, amplificato dalla suggestione, sembra voler esplodere. Silenzio di tomba. Buio di tomba.
Il pensiero corre allora alle tragedie che da sempre hanno accompagnato questo lavoro, ai secoli scorsi, quando migliaia di donne tiravano in superficie i pesantissimi vagoncini carichi di minerale e i bambini cominciavano a lavorare, non pagati, a cinque anni d’età. Il loro compito era quello di aprire e chiudere le porte di ventilazione forzata. Per sedici ore al giorno, il più delle volte al buio perché finivano o si spegnevano le torce.
Mentre la guida racconta, con notevole enfasi, queste storie di vita vissuta, un brivido corre lungo la schiena. E non è certo solo per la bassa temperatura di circa dodici gradi centigradi delle gallerie.
Turismo, nuova “miniera”
Durante il giro si scopre quali attrezzature venivano impiegate, si visitano le scuderie per i cavalli da tiro che conservano, sopra ogni posto, il nome dell’animale.
Guardando lungo le pareti si scorgono le nere venature del carbone e si può facilmente trovare un pezzetto da portare a casa come ricordo.
Le gallerie sono abbastanza larghe, ma in certi punti è necessario piegarsi per evitare di dare una terribile testata contro le travi orizzontali di sostegno. Per motivi di sicurezza è obbligatorio indossare un casco che viene fornito prima di scendere nel pozzo, insieme alla fondamentale lampada all’acetilene.
Per evitare il pericolo di esplosioni del gas che si forma nelle gallerie, non si può portare nel pozzo qualsiasi oggetto che potrebbe causare scintille: orologi al quarzo, telefonini, macchine fotografiche, men che meno fiammiferi, accendini, eccetera. Prima di scendere, un addetto passa a raccogliere questi oggetti che vengono conservati in un apposito armadietto custodito, situato negli ex spogliatoi.
La visita alla miniera non si esaurisce alle gallerie. In superficie sono ancora visibili gli strumenti di lavoro impiegati, i pozzi di ventilazione, gli argani, i binari dei carrelli, oltre alle varie infrastrutture, quali le docce e la mensa che è tuttora funzionante come bar-ristorante. C’è persino un piccolo museo che ricostruisce la vita quotidiana dei minatori, non solo quella del lavoro in miniera, ma anche quella vissuta all’interno delle loro case.
Gli ex-minatori sono oramai tutti in pensione. Rimane intatta la loro voglia di salvaguardare la memoria storica del Pig Pit. Il paese, giù in fondo alla valle con le sue case tutte uguali, il pub e l’immancabile campo da rugby (sport preferito dai minatori) è il testimone, per fortuna “vivo”, della fine di un’epoca.