Premetto, non sono mai stata una camminatrice. Ma mentre scarpinavo lungo il sentiero più ripido e scivoloso sul quale mi fossi mai avventurata in vita mia, l’unica cosa che riuscivo a pensare era che Mosè doveva avere ottime gambe. Certo, l’appuntamento era di quelli da non mancare, ma salire fino ai 2.285 metri di quella montagna è una fatica che lascia il segno.
Non si parte da zero, la camminata comincia a quota 1.500, però credetemi, non è uno scherzo. Al momento ti penti, è piena notte, è buio, c’è un po’ di vento e fa freddo, beati i monaci che se ne stanno tranquilli nel loro letto in quella meraviglia di monastero accanto al pianoro dove il sentiero inizia.
Alba sul Sinai
Però sai che una volta in cima lo spettacolo sarà impagabile. Alba sul deserto del Sinai vista dal Gebel Musa, il monte dove Mosè, unico prescelto fra gli uomini, si arrampicò lungo quello stesso sentiero per l’appuntamento più importante della sua vita. L’appuntamento con Dio.
Come recita l’Antico Testamento “… Mosè ordinò al popolo di Israele di partire dal Mar Rosso, e si diressero verso il deserto di Shur”. Il seguito della storia è noto: il Profeta scalò la montagna (l’odierno Gebel Musa) e vi ridiscese con le Tavole della Legge.
Per millenni le tre religioni monoteiste hanno identificato quei luoghi con i monti più alti del Sinai meridionale. E ai loro piedi, nel quinto-sesto secolo dopo Cristo venne fondato da Giustiniano il monastero, che in onore di una giovane alessandrina convertita al cristianesimo fu battezzato con il nome di Santa Caterina.
Da sempre, i monaci greco-ortodossi che lo abitano hanno un atteggiamento chiuso verso i turisti (è la legge egiziana che impone loro di accoglierli); visitarlo è comunque un’esperienza, anche per chi non crede.
Ma questo avverrà l’indomani, dopo la fatica della salita e la conquista della vetta lungo il sentiero che qui chiamano “strada del Pascià”, dopo il tanto atteso spettacolo dell’alba che infiamma le rocce del deserto.
Turisti e fedeli, insieme verso la cima
Il sentiero a dire il vero non è solo polvere e terra, ci sono anche dei gradini, tremila pietre tagliate nella roccia e poste in fila indiana dagli abitanti del monastero.
Salgono ripidissimi verso la vetta, con piccoli tornanti per farti sentire meno la fatica e qualche scorciatoia che abbrevia la distanza ma taglia i polpacci. In totale sono quasi tre ore, ma lungo il cammino non si è mai soli. In ogni stagione dell’anno, monte e monastero sono un’attrattiva turistica irresistibile per viaggiatori di tutti i paesi, di tutte le razze e di tutte le età.
Atterrano all’aeroporto di Ras el Naqb, inaugurato qualche anno fa e ribattezzato Taba International Airport, salgono su autobus “air-conditioned” diretti ai villaggi lungo la costa, poi prenotano l’escursione notturna fino al cuore religioso del Sinai.
Di giorno fa troppo caldo per avventurarsi lungo la strada del Pascià, mentre di notte l’ascesa è da brivido, e non è solo questione di freddo.
La processione ansimante che prosegue ordinata, silenziosa e in fila indiana, sembra avere un unico cuore palpitante che aspetta solo di raggiungere la vetta. La vetta non la vedi subito, per un’ora la intuisci solamente, anche se la guida ti dice che è lì, proprio dietro quel costone.
Sinai in groppa ai dromedari
Chi non ce la fa sale in groppa ai dromedari che affiancano la comitiva, dolcemente tirati con una corda dai beduini che, ogni notte, si arrampicano come cavallette lungo il sentiero di Dio.
La fatica non gli appartiene. Per scandire l’ascesa qualcuno si è inventato qualche provvidenziale punto di ristoro. Vendono di tutto, dal cioccolato alla Coca-Cola, perché va bene la fede, ma in vetta bisognerà pure arrivarci. E finalmente ci arrivi.
La luna si nasconde dietro una roccia, i posti di ristoro diminuiscono, i dromedari, che quelle pietre le conoscono a memoria, sanno che la fatica è terminata, che fra poco si potranno riposare ignari del senso del mistero che ci ha spinti fin lì.
Gli ultimi settecento gradini si fanno per forza a piedi, in fila indiana. A quel punto credi a tutto, anche ai miracoli, perché nel gruppo di turisti-pellegrini ci sono diversi anziani; non avresti mai detto che sarebbero arrivati fino alla cima e invece eccoli lì, paonazzi in viso ma determinatissimi a conquistarsi il loro posto, se non in paradiso, almeno sul monte di Dio.
Da qui, la parola di Dio
La montagna adesso non c’è più. È sotto di te, sotto la piattaforma irregolare dove una massa umana aspetta emozionata il sorgere del sole. Il sole arriva prima delle sei e in pochi secondi sembra incendiare il mondo. Prima qualche raggio delicato, una pennellata di luce taglia il buio della notte, poi una palla di fuoco che illumina il cielo, finché la guida ti ricorda che presto il caldo sarà insopportabile, che è arrivato il momento di scendere.
Forse non è del tutto vero che Gebel Musa è stato il “Monte di Mosè”, gli ultimi studi lo collocherebbero sì nel Sinai, ma un po’ più a nord; però risalirlo di notte, per ammirare il sole che sorge a 2.285 metri di quota è uno spettacolo che lascia a bocca aperta. Un miracolo della natura addolcito da un’aura di fede. Qualcosa di simile lo avevo già provato percorrendo le antiche piste che attraversano le gole, gli altipiani, le pareti rosse di un wadi che qui chiamano canyon colorato.
Blue Hole il buco blu
Oppure sulla sommità di Gebel Katharin, la montagna più alta di tutta la penisola del Sinai (2.642 metri), a cinque chilometri in linea d’aria dal monastero; puntando invece verso Nuweiba, la nuova, probabile Mecca del turismo balneare sul Golfo di Aqaba (a metà strada fra la frontiera con Israele e Sharm-el-Sheikh), si possono ammirare le altre meraviglie della costa orientale: i wadi color rosso fuoco.
il Parco Nazionale di Ras Abu Galum, la cittadina già turistica di Dahab, dove il fondale marino “precipita” in una meraviglia di pozzo chiamato Blue Hole (buco blu).
E poi El Hauda, con le più vaste dune di sabbia del Sinai, e quindi Ras Nasrani, il Capo dei Cristiani, affacciato su una bella barriera corallina e sulle isole di Tiran.
Ma queste sono gioie di altro tipo, adesso la meraviglia è tutta lì, fra le pietre del sentiero e quelle intrise di religiosità e mistero del monastero, dove nonostante l’alto numero di turisti l’aria che si respira è davvero sacra.
Monastero di pace
In questa terra di frontiera che è stata a lungo contesa fra Egitto e Israele, il monastero di Santa Caterina è un castello di sabbia chiuso fra la roccia.
Una fortezza in pieno deserto che, fuori dalle sue mura, ha visto passare un uomo, il Profeta Mosè, e tre grandi religioni, l’Ebraismo, l’Islam, il Cristianesimo. Oggi è abitato da una cinquantina di monaci greco-ortodossi e a mantenerlo in vita, oltre alle offerte dei pellegrini, ci sono le sovvenzioni del governo di Atene.
Ma a parte la storia, cosa c’è di tanto importante fra quelle architetture arse dal sole? Come prima cosa c’è il roveto ardente, l’arbusto attraverso cui Dio, fattosi fuoco, parlò a Mosè. E’ conservato dietro la chiesa bizantina, probabilmente il tesoro più prezioso di questa fortezza rettangolare abbracciata dalla roccia, che conserva due porte preziosissime.
Evoluzione stilistica dell’arte bizantina
Quella fatimita dell’XI secolo e quella bizantina del VI secolo che dà accesso al nartece dove è conservata una collezione di icone fra le più ricche al mondo: duemila dipinti che spaziano in un arco di quindici secoli, illustrando un panorama completo dell’evoluzione stilistica dell’arte bizantina. Dietro l’abside, scalzi, si può visitare una sala in ceramica araba, la già citata cappella del roveto ardente.
Poi ci sono la stanza del tesoro, con tovaglie d’altare, calici e candelieri russi e un’altra meraviglia che pochi luoghi al mondo possono vantare: una biblioteca con tremilacinquecento manoscritti costati ai monaci chissà quanti secoli di paziente lavoro. Sapienza del mondo trascritta in nome della fede. Solo chi è disposto a salire di notte lungo il monte di Dio, capisce che anche questo è un miracolo.
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