Non vorrei rischiare di essere fraintesa per ciò che scriverò in seguito e quindi comincio subito con una premessa: come molti occidentali, sono letteralmente innamorata dell’India e sento il bisogno, periodicamente, di rivisitarla. Vedere quanto è cambiata, sentirne gli odori, i rumori assordanti, l’aria umida e pesante che appiccica la polvere sulla pelle. Non so ancora spiegarmene il motivo, ma sono certa che continuerò a tornarvi. Però, come in ogni relazione che si rispetti, così come ne sono innamorata, spesso mi sorprendo anche a detestarla. A scoprirla insopportabile, invadente, eccessiva, persino teatrale e fasulla. Esattamente come Varanasi, una delle città più sacre di tutta l’India, il luogo dove ogni induista sogna di poter morire. Ma anche un posto a dir poco infernale. Si pensa alla spiritualità di questa “Madre Ganga” (così viene chiamato il Gange dai suoi pellegrini) che si prende cura delle anime e dei corpi e ci si trova di fronte a un immenso e caotico mercato, dove persino i bramini riescono a diventare ricchi vendendosi l’anima.
Un mercato dove ci si vende anche l’anima
In qualsiasi modo si decida di arrivare, l’accoglienza non è mai piacevole. Dai suoi duemila anni di storia, Varanasi (un tempo chiamata Benares) sembra aver imparato solo a essere diffidente e opportunista. Non c’è bramino che non ti metta un fiore in mano e non pretenda subito dopo dieci rupie, sadu che non ti spinga malamente se per sbaglio ti trovi sul suo cammino, autista o “risciò-wallah” che non tenti di portarti dove fa comodo a lui, albergatore che cambi le tariffe delle stanze a suo piacimento. E “Madre Ganga”, il fiume sacro sulle cui rive si celebrano la vita e la morte come se fossero la stessa cosa, vista da vicino ha un’acqua spessa e scura, da cui emerge davvero di tutto; assopita e inespressiva, sembra persino rassegnata a questa discutibile “spiritualità”. La frenesia di Varanasi ruota intorno ai suoi ghat, un centinaio in tutto: gradini di cemento che scendono sino al fiume e sui quali i pellegrini pregano e svolgono le loro abluzioni. Dopo quattro giorni di passeggiate lungo questi luoghi pieni di rituali, mi sentivo ancora profondamente a disagio e infastidita. E gli stranieri che incontravo nella città antica avevano tutti il mio stesso sguardo: stravolto e frastornato, che per evitare l’insistenza di venditori, barcaioli e bramini, aveva persino smesso di vedere ciò che gli stava intorno.
La luce magica di Varanasi
Il quinto giorno ho fatto un ultimo tentativo per provare a comprendere la magia di questa città. Non ho preso taxi, risciò e nessun tipo di altra “mediazione” e mi sono avvicinata da sola a quel cuore di Varanasi che mi spaventava tanto: un labirinto indecifrabile di vicoli bui e maleodoranti, botteghe minuscole piene di ogni merce, tempietti nascosti da grovigli di cavi elettrici, mucche e biciclette che intralciano gli incroci e, ovunque, insegne di maestri di yoga, ristorantini, alberghi da poche rupie a notte, massaggiatori improvvisati e venditori di sete. Il segreto è stato perdersi, non sapere esattamente dove andare e limitarsi a seguire gli odori. I rumori. La luce. Ed è stata proprio quest’ultima a rassicurarmi, a prendermi per mano e farmi scoprire la Varanasi più dolce. A volte s’infilava nella bottega di un cartolaio e gli illuminava le mani impolverate mentre incartava alcuni blocchi da disegno. A volte si rifletteva su uno specchio e andava a cadere su un piatto di alluminio, pieno di dolci dai colori improbabili. O si posava sulle spalle sporgenti di un uomo dal corpo senza proporzioni: le gambe lunghe ed esili, il torace corto e ricurvo. Altre volte, invece, illuminava le collane e i fili di cotone colorato che i pellegrini indossano, prima di immergersi nel Gange, o i fiori gialli e arancio destinati ad essere abbandonati sulle acque e trascinati via dalle correnti.
La luce invernale di Varanasi creava ombre scure e riflessi metallici che, con la polvere alzata dai passanti, copriva ogni cosa con un’impalpabile carta velina, un immaginario filtro argentato. Improvvisamente, si è posata sul manubrio della bicicletta di un bramino ed è arrivata sino al fiume, sui gradini sporchi di un ghat non molto affollato. L’ho seguita, e mi sono scoperta davanti a un Gange piatto e addormentato, con i barcaioli sdraiati al sole e le donne che approfittavano del calore di mezzogiorno per fare il bucato. Gli unici a non sembrare storditi da quello strano sole di dicembre erano i bambini, con gli occhi costantemente rivolti verso il cielo e un filo sottile tra le dita. Se è vero che la prima attività di Varanasi è la redenzione dello spirito, la seconda è sicuramente quella di far volare gli aquiloni. E se è vero che “Madre Ganga” è piena di preghiere, promesse e cadaveri, il cielo sopra di lei è affollato di pezzetti di carta colorata, attaccati a un lungo filo sottile e un bambino alla sua estremità.
All’improvviso, un’altra città. Di preghiere e di riti
Varanasi, vista attraverso la sua luce e i suoi riflessi, sembra un’altra città. Appare persino discreta, silenziosa, accogliente. Le voci insistenti di procacciatori di clienti improvvisamente spariscono davanti al grande rituale del bagno nel Gange. L’alba è sicuramente il momento migliore per capire questa città santa; lo consigliano tutte le guide e c’è davvero da fidarsi. Cominciano ad arrivare ancora prima che il sole sorga, in rispettoso silenzio verso una città che sta ancora dormendo: migliaia di pellegrini, giunti sin qui da ogni angolo del Paese. I bramini li attendono accovacciati sulle loro pedane di legno, protetti da vistosi ombrelloni di paglia. Sussurrano i loro mantra compiendo alcuni gesti e rituali e invitando i devoti a ripetere le loro parole; poi benedicono le offerte e lasciano che i pellegrini continuino da soli il loro bagno sacro, scendendo i ghat e abbandonando in acqua ghirlande di fiori, grano e piccole lampade a olio. Il fiume si riempie così di luci fioche, preghiere e gesti, ed è questo il momento più emozionante della giornata. I pellegrini a questo punto si spogliano, senza alcun pudore, ed entrano nel fiume. Rivolti al sole, fanno schizzare l’acqua tra le mani come forma di saluto, poi se la versano sul capo e si immergono completamente. Quando escono, sembrano dimenticare ogni gesto spirituale e il silenzio dell’alba, e cominciano a insaponarsi. A Varanasi si viene per purificarsi l’anima, prima di tutto. Ma anche per pulirsi il corpo, i capelli, i vestiti e persino le scarpe, le pentole e ogni oggetto si abbia con sé. Usando una gran quantità di sapone schiumoso e ricoprendo i ghat dei colori vivaci di sari e camicie stesi al sole.
Fra i differenti volti del Gange, c’è anche quello della morte
Il Gange diventa una grande lavanderia, quindi, ma anche un immenso e rassicurante cimitero. A Varanasi si viene soprattutto per questo, e il sogno di ogni buon induista è di poter trascorrere gli ultimi momenti della propria vita sulle sue rive. Per tutto il giorno, lungo gli unici due ghat crematori (adibiti, cioè, alla cremazione dei defunti) – il Manikaranika e l’Harishchandra – corpi avvolti in teli bianchi vengono arsi per ore su pire la cui grandezza denuncia le possibilità economiche della famiglia del defunto: la legna, infatti, viene venduta a peso. I corpi sono legati su una lettiga di bambù e trasportati, da quelli che ancora vengono chiamati “intoccabili”, attraverso la città antica. E così capita di contrattare con un venditore di sete e fermarsi un istante per far passare un piccolo corteo funebre, come se fosse la cosa più normale. La morte è di casa a Varanasi e un cadavere non fa più effetto di una vacca o di un sadu dal corpo dipinto di blu: si lascia loro il passo e si continua nelle proprie attività. Sui ghat crematori bruciano molte pire contemporaneamente e i parenti restano a guardare, in attesa che anche il teschio diventi cenere e possa essere donato al Gange. Al largo del fiume, capita di veder gettare in acqua corpi ancora avvolti nei loro teli bianchi, da quelle stesse barche a remi con cui i turisti costeggiano la città: sono quei defunti che non possono essere cremati e vengono abbandonati, così, alle correnti del fiume e alla voracità dei suoi coccodrilli. Ci si abitua in fretta a tutto questo. S’impara anche a vedere un rituale e una preghiera in ogni singolo gesto osservato sulla riva del fiume. E persino la ginnastica, che gli uomini praticano all’alba dopo le loro abluzioni, usando rudimentali pesi in pietra e legno, qui sembra assumere un significato tutto spirituale.
Cosa fare e dove alloggiare
Cosa fare
Prenotarsi per un concerto di musica classica indiana presso il Prakash Music Emporium (in Jangambari 35/62, telefono 0542 2451567), per scoprire le melodie di strumenti tradizionali come la tabla, il sitar, il sarod, il santoor e il sarangi.
Prevedere un’escursione in barca lungo il fiume, all’alba o al tramonto: i due momenti più belli non solo per la luce e i colori che illuminano la città, ma anche per i rituali che si svolgono sui ghat.
Farsi portare da un auto-risciò sino a Sarnath, 10 km. nord-est di Varanasi. Un luogo sacro sorprendentemente verde e rilassante, da cui Buddha cominciò a diffondere il suo messaggio.
Dove dormire
Tra i molti lodge affacciati sui ghat, consiglio l’Alka Hotel (Meerghat, telefono 0542 2328445, hotelalka@hotmail.com. Dispone di diversi tipi di camere, con o senza bagno e aria condizionata.
Anche l’Hotel Gange View (telefono 0542 313218) è molto accogliente e tranquillo, affacciato sull’Assi ghat.
Subito fuori la città antica, molto semplice ma accogliente (anche se un po’ rumoroso durante il giorno) è l’Hotel Barahdari (Maidagin Xing, tel.0542.2440040, sumita15@yahoo.com)
Decisamente più elegante e moderno e lontano dalla città più caotica, è l’Hotel India (Patel Nagar 59, tel.0542.507593, hotelindia@satyam.net.in)
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