In apparenza arrivai a Istanbul grazie a un accordo fra il ministero del turismo turco e una casa editrice italiana. In apparenza. La verità è che a Istanbul mi hanno condotto quattro meravigliosi cavalli bizantini. Quei cavalli che erano stati il centro dell’ippodromo di Costantinopoli fino al dodicesimo secolo e che poi erano stati portati a Venezia come bottino di conquista. Istanbul – ma per me sarà sempre Costantinopoli, nome che l’ha accompagnata fino agli anni Venti e che ha definitivamente abbandonato solo con Atatürk – non è che l’immagine speculare di Venezia, della mia città. Tutte e due disegnate sull’acqua, tutte e due contrassegnate dalla medesima vocazione mercantile, dalla stessa capacità marinara, da una finissima attitudine alla diplomazia, da una grande attenzione all’architettura. Non è un caso che uno dei più grandi dogi veneziani, Andrea Gritti, sia vissuto a lungo, come mercante, nella Costantinopoli di Beyazid II. Un doge e un sultano convinti assertori di una politica mediterranea in cui ci fosse posto per il confronto fra culture piuttosto che lo scontro fra i popoli.
Sulle rive del Bosforo
Imbarcata con altri sconosciuti passeggeri su un aereo che prendeva il volo da Fiumicino, fantasticando come solo una partenza affrontata in solitudine ti consente di fare, mi sentivo un viaggiatore che si allontanava dagli affollati moli del Tirreno per approdare alle acque del Bosforo percorrendo un lungo tratto di mare che è il medesimo, comune mare. Il Mediterraneo. All’inizio di quell’ottobre dorato e ancora profumato di estate, Costantinopoli mi aspettava, con i suoi giardini imperiali ricchi di tulipani, con le sue molte moschee, con il tramestio dei suoi mercati, con le sue piccole botteghe di dolciumi, con il vecchio Hotel Pera dove aveva dormito Agatha Christie, e il caffé ai cui tavolini Pierre Loti concepiva i suoi romanzi esotici. Mi preparavo a quella sorta di sorvegliato sperdimento che è bene concedersi in una città orientale che abbraccia due continenti e che è abitata da dodici milioni di persone.
Città deserta
Le mie fantasie di viaggiatrice non avevano tenuto conto d’un elemento imprevisto. Non certo per i sessanta milioni di turchi che abitano il Paese. Ma per me. Il censimento della popolazione organizzato dal governo. Proprio nel giorno del mio arrivo. L’obbligo per tutti era di non uscire di casa. In modo da essere presenti quando l’ufficiale incaricato di registrare ogni famiglia si fosse presentato. Per ventiquattr’ore la città dai mille dialetti, dalle molte etnie, la città delle folle e dei mercati, sarebbe stata completamente deserta. Vuote le strade, sospesi i servizi pubblici, chiusi quasi tutti i musei, chiusi i ristoranti, chiusi i negozi, divieto di circolazione per le auto, tranne quelle di medici, poliziotti ed altri autorizzati. Una di quegli “autorizzati” ero io. Perché mai il ministero del turismo turco avesse organizzato un viaggio per una giornalista italiana nel giorno del censimento è per me, ancor oggi, motivo di perplessi interrogativi. Allora risultò inutile indagare: c’è qualcosa di marmoreo, di fine e assieme di ottuso nel carattere dei turchi. E’ possibile fare cento volte la stessa domanda e ricevere per cento volte la stessa vaghissima e insoddisfacente risposta. E la mia guida – un ragazzo giovane e spiritoso, di nome Ilan – “come il Milan senza la emme” – non faceva eccezione. Le decisioni del ministero – e altre questioni più scottanti, dalla politica nei confronti dei curdi alla pena di morte, dal desiderio di entrare in Europa alla condizione femminile – venivano liquidate da Ilan con cortese evasiva frettolosità. Nei quattro giorni in cui siamo stati insieme non gli ho sentito dire una sola volta di no. Il diniego, in Turchia, è sempre elusivo, allusivo, vicario. Mai diretto. Se un turco ti guarda con malizia, molto probabilmente sta dicendoti di no. Un “no” che non uscirà a chiare lettere dalla sua bocca. Ma che ti verrà fatto indovinare.
Istanbul, in lungo e in largo
E infatti Ilan, con bizantina abilità, non si soffermò su tutto quanto “non” potevo fare in quella giornata. Mi offrì, invece, una possibilità che nessuno aveva mai avuto: quella di impadronirmi d’una città svuotata e immota. Una città tutta mia, soltanto mia. Che il giorno seguente avrebbe ricominciato ad appartenere ai suoi abitanti, ad essere affollata e vociante. Non c’era che accettare. Così Istanbul – che avevo l’eccezionale privilegio di percorrere in lungo e in largo con un’automobile, la mia guida e un autista tutto per me – mi apparve, in quel giorno, come un luogo reale e surreale. Non una città, ma la sua immagine speculare, metafisica. Abitata dai gabbiani, dai bambini che giocavano davanti a casa nei quartieri residenziali. Da qualche poliziotto che ci fermava, leggendo puntigliosamente le nostre molte autorizzazioni a circolare. In quel giorno anomalo, un giorno fuori della storia, senza giornali, senza altro sentimento che quello dell’attesa del mattino seguente, Istanbul sembrava una bella donna addormentata. Grazie al censimento – che allora maledissi, ma che nel tempo è venuto assumendo il ruolo di un benedetto capriccio del destino – ho potuto vedere le case di legno che affacciano sul Bosforo e trovarmi un’ora dopo dall’altra parte della città, davanti alla chiesa di Santo Stefano dei Bulgari, che affaccia sul Corno d’Oro fra Balat e Fener e che è tutta costruita in ghisa: una enorme stufa gotica e grigia, i cui elementi furono fusi a Vienna e giunsero a Istambul su cento chiatte attorno al 1870. E che nessuno va mai a vedere. Ho potuto capire, invece che subire, la pianta della città, e il disegno delle sue molte acque: quelle dell’estuario fluviale, e del Bosforo che collega il Mar Nero al Mar di Marmara.
Son potuta entrare nel primo cortile del Palazzo del Sultano, di solito pullulante di turisti, sentendo il rimbombo dei miei passi. Solimano, in quel silenzio, mi parlava attraverso il luogo da lui voluto e costruito, quale mirabile rappresentazione del proprio potere. Poiché il silenzio e la solitudine modificano il rapporto con il tempo, ho visitato l’ippodromo, dove un tempo torreggiavano i cavalli che ora ornano San Marco, “vedendo” le manifestazioni dell’arte dell’equitazione che vi si svolgevano più di mille anni prima. Il silenzio della città, appena interrotto dallo stridio dei gabbiani, finiva per sottolineare il panorama dolce e ondulato, il profilo morbido delle colline su cui si disegnano cupole e minareti. Benché Atatürk – che significa “Padre dei Turchi”, poiché il suo vero nome è Mustapha Kemal Pasha- abbia scelto come capitale della nuova repubblica Ankara per sottolineare il distacco dal passato imperiale di Istanbul, al dunque è questa la città regina della Turchia.
Di nuovo nel caos cittadino
Che viso m’avrebbe mostrato la regina, il giorno seguente? La risposta mi venne alle sei e mezzo del mattino, quando una decina di clacson cominciarono a ululare tutti insieme: il deserto e tranquillo nodo autostradale a ridosso del centro su cui affacciava il mio albergo era diventato un serpente di lamiere in sussultante e lento movimento. Istanbul è un ingorgo continuo, un incidente continuo, un continuo strepitar di clacson. Anche il mio autista, che all’arrivo m’era parso un uomo silenzioso, avvolto da un forte odore di tabacco – naturalmente fumava come un turco – il giorno seguente si trasformò in una sorta di panzer che puntava il suo cofano contro ogni veicolo gli si parasse davanti. I turchi al volante non hanno un atteggiamento illuminista e volteriano: piuttosto credono nel fato, nel kader. E per questo non badano alla manutenzione dei freni, non si occupano dei tergicristalli, guidano con la testa voltata all’indietro per spiegarti dove stanno andando. E infatti la Turchia è il paese con il più alto tasso di incidenti automobilistici di tutto il mondo.
Così come m’ero innamorata della città deserta e silenziosa, finii per innamorarmi della città chiassosa e caotica. La città del gran bazar, del mercato delle spezie, la città dei traghetti, delle fiere degli animali e delle piante, la città delle torme di turisti e delle file di pullman. Dopo tre giorni di colorato caos, di pistacchi e di locum, di té e di sorbetti, l’Istanbul silenziosa e segreta mi apparve ancora una volta. L’aereo era appena decollato e sorvolava la città al tramonto. Disegnata sul Bosforo, Istanbul era nuovamente muta, bella e dorata. E, per un attimo, tornò ad essere soltanto mia.
Leggi anche:
Fès, città imperiale più antica del Marocco
Da Persia a Iran. Mosaico da interpretare