Karlův Most in una gelida mattina di fine dicembre, l’aria bianca di neve da cui emergono bruscamente le statue che ornano il ponte: severe, ieratiche, nere contro la nuvola candida che da un cielo uniforme si abbassa a lambire questo antico selciato. Davanti a me galleggiano, nel biancore, la torre di Malá Strana e le cupole della chiesa di San Nicola. Alle mie spalle le torri di Staré Město e dell’acquedotto, quest’ultima appena intuibile bianca nel bianco, vegliano su questo antico ponte; cinquecentosedici metri che da oltre sei secoli si inarcano sopra la Moldava.
“Praga non mi libera. Non scioglie i legami fra noi due. Questa matrigna ha gli artigli. Allora bisogna sottomettersi, oppure dovremmo incendiare due punti, il Vysegrad e il Castello, allora sarebbe possibile liberarsi.” scriveva Franz Kafka a un amico nel 1902. Non è difficile credergli.
Labirinto di pietre
Si dice che Praga è magica, ma sotto la superficie di questa romantica definizione si agita il lato oscuro di una città che sa essere anche drammatica, gotica, sottilmente inquietante. E’ come essere perennemente scrutati, osservati, dominati da guglie, pinnacoli, torri puntute, cupole fintamente paciose, abbaini apparentemente distratti. Ci si muove tra vicoli stretti e arterie spaziose, e sembra di allontanarsi sempre di più dal punto di partenza. Per poi alzare lo sguardo e scoprire, invece, di essere appena qualche metro più in là. Per Franz Kafka questo è stato ancora più vero. Ha vissuto un’intera vita, cambiato case, frequentato scuole, caffè, luoghi pubblici e privati, tutto nello spazio di pochi chilometri quadrati. Sulle sue tracce, in bilico tra un passato prossimo e un presente frenetico e post comunista, ho scoperto una Praga diversa, meno immediata ma non per questo meno affascinante e intensa.
E’ ancora presto per la maggior parte dei turisti che invadono la città quando decido di raggiungere il Castello. Lo intuisco appena, un’ombra più scura nel bianco turbinio che non accenna a diminuire, arroccato sul colle Hrdčany a dominare la capitale ceca che si adagia dignitosa e compiacente ai suoi piedi. Attraverso dunque il quartiere di Malá Strana, sulla riva destra della Moldava, lungo strade di acciottolato reso scivoloso da neve e pioggia, lo sguardo alzato ad ammirare le belle case barocche e neoclassiche, con le antiche insegne ancora presenti a segnalare attività passate: i tre violini dove vissero mastri liutai, un orso dove sorse una locanda. Su, fino a raggiungere il Castello, Pražský Hrad, una delle fortificazioni più imponenti d’Europa dichiarano orgogliose le guide locali. Quello che colpisce, però, arrivati in cima, è il tappeto di tetti rossi che scivola sempre più verso il basso, il verde dei numerosi parchi, le guglie delle decine di chiese che si mostrano improvvise in piazze come rimpicciolite, avviluppate su se stesse e prostrate ai piedi delle magnificenti costruzioni.
Franz in cento luoghi, reali e immaginari
E’ la stessa sensazione che si prova quando, attraversati i cortili della Castello, si sbuca davanti alla cattedrale di san Vito, Chrám Sv. Víta, costruzione gotica che impiegò mille anni per assurgere a tutta la propria dolorosa bellezza. Costretti nello spazio di una manciata di metri, lo sguardo sale spaurito lungo la ricca facciata, il viso alzato a sbirciare la croce che campeggia sulla mia espressione che sento di ansiosa meraviglia.
Si è come divisi tra l’ovvia ammirazione per tutta questa bellezza e la curiosa sensazione di sentirsi dominati, schiacciati dalla severità di queste pietre. Sensazione che si alleggerisce mentre mi dirigo verso il Vicolo d’Oro, attraente viuzza di piccole case colorate, un tempo abitato da orafi, alchimisti, astrologi, e oggi trasformato in processione di negozi angusti e perennemente affollati.
Una delle prime casette è dipinta d’azzurro, e sulle prime non si capisce cosa attragga i turisti che si fanno fotografare accanto alla porta di ingresso. Poi si scorge una scritta, che recita semplicemente “Franz Kafka”.Lo scrittore non visse qui, contrariamente a quanto si crede, ma vi passò del tempo, soprattutto scrivendo. Alla fidanzata, Felice Bauer, raccontava: “…è qualcosa di speciale avere una propria casa e sbarrare sul mondo la porta non della camera, non dell’appartamento, ma della casa, uscire direttamente sulla neve del vicolo silenzioso.” E scendendo verso la torre che sbarra il vicolo, se si riesce ad estraniarsi dal vociare della folla invadente e rumorosa, non è difficile immaginare la magia di questi luoghi, il rimbombare ritmico e cupo dei passi dei soldati che si danno il cambio, le pozze di luce che scivolano lungo i lampioni, giù per le scalinate che lo riportavano a Palazzo Schonbörn, in Malá Strana, o prima ancora “Al luccio d’oro”, al confine tra il quartiere ebraico di Josefov e Staré Město.
I nuovi praghesi: i turisti
Alla ricerca di quest’ultimo edificio, dove Kafka visse per un paio d’anni, mi trovo a camminare lungo strade improvvisamente meno trafficate, su cui si affacciano edifici non ancora ristrutturati. Anche qui, però, ristoranti ogni pochi passi, bar, piccole pensioni: Praga paga il proprio tributo al turismo. Vago lungo vicoli stretti e piazzette dimenticate, fino a imbattermi in un edificio giallo e malandato che reca ancora la scritta Skola, scuola: un tempo era la scuola elementare tedesca di Praga, dove il piccolo Franz riscattava le umili origini dei genitori inserendosi nella crème dell’intellighenzia praghese.
Di qui al quartiere giudeo è poca strada, e non posso sottrarmi. Ecco allora il municipio ebraico, la Pinkasova Sinagóga, la Sinagoga Vecchia-Nuova, il vecchio cimitero ebraico con la sua atmosfera malinconica e romantica, le sghembe lapidi oramai illeggibili. Qualche buontempone sostiene che anche Kafka sia seppellito qui: niente di più falso. Giace, con entrambi i genitori, al cimitero nuovo, sotto una lapide bianca e severa che nulla ha del nostalgico abbandono che aleggia invece tra queste tombe. Ancora non ho lasciato il quartiere, e mi rendo conto di essere vicinissima al cuore della città vecchia; solo una strada alberata, la bella e altera Pařižská, mi separa dalla Staroměstské Naměstí, sorvegliata da quel lato dalla torre dell’orologio.
Un po’ turbata dal senso di irrealtà che prende quando si è convinti di avere percorso molta strada lungo linee rette, e si scopre invece di aver girato in tondo, decido di allontanarmi ancora, alla ricerca dei caffè che Kafka frequentò durante le scorribande giovanili: il Savoy, di un surreale color magenta, gli stucchi bianchi che sembrano di panna montata; il Louvre, con la sua facciata vagamente decadente; l’Arco, triste come sanno esserlo i bar delle stazioni ferroviarie. Qui scopro che Praga ha davvero artigli, e uno di essi mi trattiene mio malgrado: scorgo la Torre delle Polveri, oscura sentinella che segna il confine tra Staré Město e Nové Město, il quartiere nuovo. La oltrepasso, e percorro Celetná Ulice, ampia e ordinata, dove si incontrano il retaggio neoclassico e la ribellione cubista, le belle facciate dei palazzi e la Madonna nera che, da dietro le sbarre di un’inusuale nicchia, veglia su un negozio-museo cubista. Incrocio così il fantasma di Kafka, dietro le imposte delle case che abitò con la famiglia o frequentò con amici e intellettuali, fino a quando mi ritrovo proprio di fronte alla Torre dell’Orologio.