Venerdì 29 Marzo 2024 - Anno XXII

C’era una volta in Cina

Il sapore aspro e insieme dolcissimo delle lazzeruole caramellate. L’odore delle foglie di cavolo cotte al vapore e mescolate alla carne di maiale e allo zenzero.
Il ricordo di volti, biciclette, carretti, animali, nelle vie di Pechino

Pechino, la Città Proibita
Pechino, la Città Proibita

Era un giorno di fine dicembre del 1978 quando io e la mia famiglia abbiamo preso l’aereo per Pechino. Mio padre aveva ricevuto l’incarico di scrivere un dizionario italiano-cinese e per redigerlo doveva trasferirsi a Pechino, dove sarebbe stato affiancato da un’equipe di esperti cinesi.
Giunti a destinazione, il primo problema da affrontare era, ovviamente, quello della lingua. Poi molti altri ancora, dalle abitudini quotidiane più semplici, ai ritmi di vita, al clima, al cibo.
Tutto all’inizio così diverso, così estraneo. Difficoltà, queste, superate grazie allo spirito di adattamento tipico dei bambini, favorito anche dall’inserimento nella scuola cinese, che mi ha permesso (anche troppo) di entrare in contatto con la realtà cinese. Si, ho detto bene: scuola cinese. Un anno di materna e uno di elementare.
Scelta in pratica obbligata, non esistendo ovviamente una scuola italiana per tre o quattro bambini italiani, quanti eravamo in tutto in quegli anni a Pechino; residenti, per di più, dall’altra parte della città rispetto alla nostra ambasciata.

Alfabeto mandarino

C’era una volta in Cina

Ogni mattina un bus mi conduceva fino al quartiere dove si trovava la mia scuola. Raggiungere la scuola dalla fermata del bus era già di per sé una grande avventura, per una bambina piccola quale ero.
Nei vicoli attorno alla scuola, dove non era difficile perdersi e dove alcune volte di fatto mi sono persa, accadeva di tutto: c’era chi vendeva galline e oche vive, uccellini in gabbia; chi all’occasione si improvvisava sarto o barbiere; c’erano banchetti ricolmi di cibi fumanti e, soprattutto, c’erano teatrini di marionette o di ombre cinesi che mimavano le storie dell’Opera di Pechino. E proprio lì amavo sostare e fantasticare su quelle leggende di guerrieri e di re.
Naturalmente, pur essendo vestita con abiti cinesi, le treccine che spuntavano dal tipico berretto con paraorecchie non passavano certo inosservate. Ai cinesi di quel tempo non capitava spesso di incontrare stranieri, per di più bambini, per giunta biondi. Come non bastasse, in grado di comunicare (questo, per la verità, dopo alcuni mesi) nella loro lingua e di intonare perfino qualche canzone rivoluzionaria!
Così accadeva che, inoltrandomi da sola in quei vicoli, ero io a costituire la principale attrazione per la folla di vecchi, donne e coetanei che mi accerchiavano e mi seguivano.

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Una scuola “codificata”

Francesca Cannella
Francesca Cannella

Lo stesso stupore devono averlo per certo provato i miei piccoli compagni al mio arrivo a scuola, dato che ero l’unica straniera con cui i bambini della mia classe avessero mai avuto a che fare.
Ricordo i loro volti sorridenti, le gote paffute e i vestiti coloratissimi. Ma soprattutto ricordo la simpatia con la quale mi hanno accolta, ben diversa dall’espressione di riservata, quasi sospettosa freddezza delle maestre.
La scuola era improntata a severe regole di comportamento e la mia naturale vivacità mi creava a volte momenti di difficoltà. La rigida disciplina, accompagnata dai rituali delle grandi adunate quotidiane, al mattino presto, di tutti gli alunni della scuola per il canto collettivo e per la ginnastica, aveva qualcosa di militaresco.
Lo spazio per la libera espressione della creatività era praticamente inesistente. O meglio, si disegnava, si cantava, si ballava tutti in gruppo, ma i temi erano rigidamente fissati, senza molte possibilità di scostarvisi.

Mattonelle di carbone

L'autrice all'interno della classe
L’autrice all’interno della classe

Chi, come me, assumeva iniziative personali, veniva punito con la diminuzione del punteggio (calcolato con timbri di bandierine rosse) o con l’obbligo di spalare il carbone; punizione che, fortunatamente, non mi è mai toccata.
Il carbone era necessario per alimentare le stufe, principale forma di riscaldamento disponibile a quel tempo; unico mezzo per affrontare i rigidi inverni di Pechino.
Quando la temperatura si abbassava, molto spesso anche a meno venti gradi, appena entrati a scuola bisognava togliersi gli scarponcini di pezza imbottiti, scaldare i piedi intirizziti davanti alla stufa e bere abbondanti tazze d’acqua bollente che versavamo da grandi termos colorati, immancabili in ogni scuola, casa o ufficio.
Nonostante fosse frequentata quasi esclusivamente da figli degli insegnanti dell’Università di Lingue, presso cui lavoravano i miei genitori, era una scuola veramente povera, con i pavimenti in terra battuta, cumuli di mattonelle di carbone per scaldarsi e bagni quanto meno essenziali.
Di quest’esperienza di vita mi sono rimasti ricordi e sensazioni ambivalenti. Una cosa però è certa: penso di aver decisamente imparato il vero significato della parola “adattamento”!

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Percorsi cinesi

Le colline di Guilin
Le colline di Guilin

Per fortuna il mio soggiorno cinese non è trascorso esclusivamente a scuola. Avevamo le vacanze, d’inverno e d’estate. Questi periodi naturalmente li impiegavamo, io e i miei genitori, per viaggiare attraverso la Cina.
Viaggi a volte avventurosi, sia per i percorsi e le località visitate, sia per le sistemazioni talvolta spartane, dato che in quegli anni, al di fuori delle grandi città e degli itinerari turistici consentiti e frequentati, esistevano pochi alberghi degni di questo nome.
Ancora oggi ricordo mia madre quasi in lacrime per le precarie condizioni igieniche e l’affollamento del battello con cui abbiamo disceso il corso del Fiume Azzurro. Ma la povertà, lo squallore di alcune situazioni, l’igiene elementare e le scomodità, non contavano più di tanto agli occhi e alla mente di una bambina intenta a fantasticare in presenza di luoghi, templi, visioni di sogno.
Navigare su un battello, trasportati lentamente dalla corrente del fiume, circondati dai contorni fiabeschi delle colline di Guilin, avvolte da una nebbiolina rosata, è un’esperienza unica, anche per un adulto; a maggior ragione per una bambina.
Di fronte a tali scenari, ai templi dei Mille Budda come agli antichi Palazzi imperiali, alle Pagode, alle statue scavate nelle grotte, mi sono volta a volta immedesimata nei personaggi delle leggende, cogliendo e vivendo la magia dell’antica Cina.
Fine dicembre 1980. Sono trascorsi due anni, il nostro soggiorno in Cina è terminato. Si decide di ritornare in Italia con il treno, la transiberiana da Pechino fino a Mosca. Per sei lunghi giorni si attraversano paesaggi avvolti nel bianco della neve: praterie, laghi, foreste. Alle fermate si scende dal treno e si risale in fretta: fa troppo freddo! Su quel treno ho parlato, per l’ultima volta prima di dimenticarlo, il cinese.

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