Venerdì 19 Aprile 2024 - Anno XXII

Hanno spostato il Sinai di Mosè

monte Cave di Mose

La tradizione identifica il monte dei dieci comandamenti nel Jebel Moussa (Egitto) ma scoperte archeologiche degli ultimi decenni inducono a ritenere che il racconto biblico alludesse a Har Karkom, una montagna del Negev israeliano

monte Graffito chiamato "L'occhio che guarda dalla roccia"
Graffito chiamato “L’occhio che guarda dalla roccia”

Su un masso del monte c’è un graffito con un occhio che emana raggi come il sole. Su un altro spuntano due tavolette coi lati superiori tondi, divise in dieci caselle quadrangolari. Su un terzo compaiono simboli magici: scorpioni, serpenti e bastoni. Intorno a quei massi si stende un vasto altopiano ciottoloso, arido, simil-lunare, circondato su tre lati da falesie e scarpate e chiuso sullo sfondo da due piccole cime che forano un cielo blu cobalto, perennemente sereno, al punto da diventare ossessivo. Su tutto incombe quel silenzio surreale che solo il profondo deserto sa dare.

Har Karkom, monte dello zafferano

monte La sommità del Har Karkom
La sommità del Har Karkom

Chissà perché gli israeliani lo chiamano così; in realtà su questa altura sperduta nel Negev, proprio sul confine col Sinai egiziano, di erbe e fiori aromatici non si vede nemmeno l’ombra. Di graffiti, invece, ce n’è da vendere (finora ne hanno censiti trentacinquemila) soprattutto nei luoghi più importanti: all’accesso della montagna, accanto alle poche sorgenti utili o nei pressi di un antico tempio che giace in rovina al centro del pianoro sommitale, con l’altare rivolto verso oriente in un atto di omaggio al sole, fonte della vita per tutti e dio per molti. Millenni fa Har Karkom era certamente una località sacra: lo provano molti indizi: dal tempio in rovina ai graffiti magici che mani ignote scolpirono dal Paleolitico all’Età del Bronzo. Forse, anzi, fu il monte più sacro di tutti: quello – chiamato dalla Bibbia Sinai o Horeb – da cui Mosè, condottiero degli Ebrei e futuro profeta venerato da tre religioni, scese con le tavole dei dieci comandamenti.

Le probabili “strade” di Mosè

monte L'archeologo Emmanuel Anati
L’archeologo Emmanuel Anati

Che Har Karkom e il Sinai biblico siano la stessa cosa, lo sostiene uno dei più famosi archeologi italiani viventi, Emmanuel Anati, nato a Firenze, oggi docente di paletnologia all’Università di Lecce.
La teoria di Anati, formulata per la prima volta negli Anni Settanta e via via sempre più accreditata, è una rivoluzione per gli studiosi di cose bibliche. In precedenza, infatti, il “monte dei comandamenti” era stato collocato in una ventina di posti diversi, ma sempre in base a suggestioni religiose o a ipotesi formulate a tavolino. Fra i presunti “luoghi di Mosè” il più accreditato dalla tradizione cristiana e islamica (ma non ebraica) è Jebel Moussa, la montagna che domina il Monastero di Santa Caterina, nel Sud del Sinai, a due ore d’auto da Sharm El-Sheik: un rifugio di eremiti divenuto frequentatissima meta turistica. Va detto che Jebel Moussa non ha mai convinto. Anzitutto quella vetta è lontana dalla via logica tra l’Egitto e la “Terra di Canaan”: per arrivarci gli Ebrei di Mosè avrebbero dovuto deviare per cinquecento chilometri fra andata e ritorno. Inoltre le indicazioni della Bibbia non quadrano: il “Deserto di Paran”, dove Mosè si accampò dopo aver lasciato l’Horeb, è a duecentocinquanta chilometri dal Jebel Moussa. Infine nei dintorni di Santa Caterina non c’è traccia di culti preistorici: i reperti più antichi sono del III secolo d.C.; testimoniano dunque la presenza dei primi eremiti cristiani, ma non il passaggio di Mosè (1250 a.C.).

LEGGI ANCHE  La Milano verace de "La Cricca"

Verso il “nuovo” Sinai

monte Salita al monte Horeb
Salita al monte Horeb

E Har Karkom? Abbiamo voluto verificare la teoria di Anati di persona, salendo sul Monte dello Zafferano con la Bibbia a mo’ di guida. Ma arrivare lassù non è facile: infatti fino a pochi anni fa la zona era usata dall’esercito israeliano per esercitazioni di tiro; quindi il terreno è cosparso di residuati bellici. Inoltre la strada nella prima parte (da Eilat in direzione nord verso Gaza) corre a pochi metri dal confine egiziano, quindi è soggetta a controllo militare e aperta solo a orari fissi; nell’ultima parte, poi, diventa una pista, percorribile in jeep o a dorso di cammello. Ed eccolo, il “nuovo Sinai”. A chi arriva si presenta con una parete a picco, alta forse tre-quattrocento metri, a prima vista insuperabile per chi non è alpinista (né profeta). È davvero quello il Monte di Mosè? Fin dal primo approccio si notano alcuni dettagli che spianano la strada alla tesi di Anati. Anzitutto, Har Karkom è sull’itinerario logico fra l’Egitto e il sud dell’attuale Israele. In secondo luogo il suo aspetto suggestiona: se gli antichi carovanieri del deserto avessero voluto immaginare un posto in Terra a misura di Dio, difficilmente ne avrebbero trovato uno più adatto.

monte Le dodici pietre ai piedi della montagna
Le dodici pietre ai piedi della montagna

Poi c’è tutta una serie di coincidenze col racconto biblico. La prima è ai piedi della montagna, dove vicino ai resti di un antico insediamento si notano dodici grosse pietre erette come rudimentali stele. Apriamo l’Esodo al capitolo 24, dove si racconta che gli Ebrei si accamparono sotto il Sinai per mesi, e leggiamo: “Mosè si alzò di buon mattino ed eresse alla base del monte un altare e dodici cippi per le dodici tribù di Israele”. Un caso? Tutto può essere: di pietre grezze usate a mo’ di cippi è pieno il mondo. Perciò non facciamoci suggestionare: siamo solo all’inizio… Poi cominciamo a salire per un sentiero sul versante ovest, l’unico accessibile con facilità. Per arrivare ai bordi dell’altopiano basta un’oretta di cammino, ma in quel breve tratto il mondo cambia. Sotto il monte, infatti, qualche traccia di verde c’è; sopra, no. Lassù il terreno è fatto di selce durissima e sterile, che nei punti in cui è levigata abbaglia con una strana luce scura. Apriamo di nuovo la Bibbia: “Sotto i suoi piedi vi era un pavimento come di lastre di zaffiro, simile in purezza al cielo stesso”. Chi scrisse quel versetto, se pensava a Har Karkom esagerò un po’, ma non moltissimo.

LEGGI ANCHE  Maria Callas: la vita, la voce, la carriera in mostra a Verona

La Bibbia come guida

Graffiti scorpioni e serpenti
monte Graffiti scorpioni e serpenti

Ed ecco i primi graffiti: l’occhio coi raggi del sole, che evoca l’occhio di Dio, tuttora presente nell’iconografia religiosa; le due tavole divise in dieci settori; serpenti e bastoni, a volte abbinati. Ancora una volta ricorriamo alla Bibbia, dove tavole, bastoni e serpenti sono simboli in cui si esprime il “carisma divino” di Mosè. L’Esodo, al capitolo 32, racconta: “Mosè tornò e scese dalla montagna con in mano le due tavole della Testimonianza, scritte sui due lati, da una parte e dall’altra”.E prima, al capitolo 7: “Prendi il bastone e gettalo davanti al faraone: diventerà una serpe”. Ma gli animali che possono evocare ricordi biblici non sono solo rettili: “Io farò sgorgare per te l’acqua dove vivono solo gli scorpioni” promette Dio al popolo di Israele, in un momento critico dell’esodo dall’Egitto. Ci pensiamo quando ci imbattiamo in un’altra coincidenza: cioè quando arriviamo a una sorgente circondata da rocce istoriate da una piccola armata di scorpioni, tra i quali sgorga appunto l’acqua. Increduli apriamo di nuovo la Bibbia, cerchiamo il passo di cui si diceva, ma stavolta non lo troviamo: sarà l’emozione, sarà il caldo torrido che si fa sentire, sarà la fatica…

Condividi sui social: