Il trucco
Mentre parliamo, fanno la loro comparsa sulla stuoia di cocco due attori, entrambi di carnagione scurissima.
Il più giovane, seduto in posizione yoga, comincia a truccarsi il viso con il giallo, il verde; interpreterà quindi il ruolo più importante, quello che personifica il “bene”. Dispone di piccoli recipienti, uno per ogni colore, di una boccetta contenente un liquido oleoso col quale impastare la tinta che verrà spalmata sul viso per mezzo di piccole spatole d’osso.
I movimenti dell’uomo, che con una mano regge uno specchietto, sono lenti, sicuri. L’operazione richiede tempo, pazienza e abilità. I colori applicati sulle gote, orizzontalmente, vengono scelti a seconda del ruolo che si deve interpretare. Ce ne sono di diversi: giallo, verde, rosso, turchese, nero.
Mentre l’attore prosegue con il trucco, un aiutante ritaglia con cura
un apposito cartoncino bianco; sono due “appendici” che egli stesso
incolla ai lati del viso dell’uomo per mezzo di striscioline di stoffa
che sigillano la zona già dipinta con questi enormi bargigli bianchi.
Per
facilitare l’operazione, il protagonista si è sdraiato sul pavimento.
La maschera così creata servirà ad enfatizzare ancor più il movimento
degli occhi e la mimica facciale. L’altro attore, più anziano e
robusto, si sta truccando col nero e col rosso quali colori dominanti;
sarà il personaggio contrapposto, un “demone fiero”, reso comunque
buffo (naturalmente ai miei occhi di occidentale) da un naso rosso
rotondo e clownesco, che si applica alla fine del trucco. Un’altra nota
di curiosità, nel corso della lunga recita, è data da un ripetuto
“purrr…purrr…” pronunciato nei momenti di maggior carica drammatica.
Cantori a parte, l’unica voce della rappresentazione.
Magia del Kathakali
“Al cader della notte il rullo dei tamburi risuona nell’aria, la gente si raduna nel tempio. Lo spettacolo inizia e si prolungherà sino al sorgere del sole”. E’ davvero un impegno non da poco assistere a una rappresentazione del Kathakali. Per esperienza personale, credo che il sistema migliore sia quello di rilassarsi, abbandonarsi quasi al ritmo – ora lento, ora vivace – ma comunque ossessivo, dei tamburi. Il cembalo sottolinea le fasi del racconto epico e la nenia dei cantori non è mai uniforme; anch’essa altalena fra gli avvenimenti danzati, mimati dagli attori.
Ciò che più colpisce e attira, nel Kathakali, è il mutevolissimo apparire del viso degli interpreti. Il Guru (Maestro) Sri T. Radhakrishnan, fa di tutto per mettermi a mio completo agio. Me ne accorgo dalla naturalezza con la quale mi “racconta” della danza, una manifestazione artistica alla quale ha dedicato la propria esistenza e dallo sforzo che compie per illustrarmi le varie simbologie, i più nascosti significati delle differenti posture del corpo, dei talvolta impercettibili movimenti degli occhi, delle mani, delle dita.
Sa perfettamente, il Maestro, che nemmeno una vita trascorsa sulle coste del Malabar mi consentirebbe di interpretare, di capire, le infinite possibilità espressive e i nascosti messaggi che il Kathakali è in grado di trasmettere. Messaggi che sfuggono, il più delle volte, alla cultura occidentale.
Ma rimane il fascino intatto di un’arte complessa e degna di venire perlomeno avvicinata, apprezzata.