Ottimo stipendio, avanzamento di carriera, cambio di vita. Ci si pensa in famiglia, se ne discute per un po’ e poi via, si parte, con figli al seguito.
Il partner – di solito la donna – lascia il proprio lavoro, si licenzia (in casi meno frequenti può tentare di chiedere un’aspettativa) e parte verso una nuova avventura. All’inizio con una certa euforia: nuova vita, nuove abitudini, un mondo da esplorare.
I mariti si insediano nei nuovi uffici, con compagni di lavoro che creano un circolo di conoscenze e amicizie intorno. Sulle mogli ricade il compito della riorganizzazione familiare: la scuola dei figli, il tempo libero dei bambini, gli aiuti domestici, il medico, la spesa da fare magari con abitudini alimentari diversissime.
Integrarsi? Certo, ad ogni livello
Il primo anno scorre via in un’atmosfera a volte euforica, a volte stressante, ma così piena che non ci si rende conto del tempo che passa. La donna, nel frattempo, si è adattata alle abitudini locali molto meglio dell’uomo: ha creato una rete di rapporti con la popolazione (dal postino al negoziante, dal dottore all’allenatore di football del figlio o alle altre mamme); ha magari imparato a parlare un po’ la lingua locale (mentre il marito continua a parlare la lingua comune del business, cioè l’inglese in ufficio con i colleghi). Il “cultural shock”, il primo scontro con la nuova realtà, è ampiamente superato e quando tutte le rotelle sono entrate negli ingranaggi, per la donna scatta la fase due, quella del “cosa faccio adesso?”.
Esperienze in Europa e altrove
Francesca Prandstraller, sociologa, ha appena pubblicato il libro dal titolo “Espatriate. Storie di donne italiane all’estero per lavoro e per amore”, pubblicato da Guerini, basandosi sulla sua personale esperienza (tre anni a Washington per seguire il marito e poi il ritorno a Milano) e su quella di altre donne all’estero. Sa bene cos’è la fatica di uscire da una realtà e adattarsi ad un’altra. “Si ripensa alla carriera lasciata alle spalle, ci si sente sempre ‘moglie al seguito’, si entra in crisi di identità”, spiega. “Alcune donne si rimettono a studiare (un master, una nuova lingua, un corso professionale) altre si buttano nel volontariato o prestano servizi vari nella loro comunità di riferimento, per esempio la scuola dei figli; altre ancora avviano attività commerciali, magari su internet, attività che richiedono pochi investimenti iniziali. Infine ci sono quelle che cercano un nuovo lavoro seguendo metodi tradizionali, come le risposte alle inserzioni, i colloqui con i cacciatori di teste. Tutte, comunque, si devono in qualche modo reinventare una professione e lo fanno sostanzialmente da sole e con risultati alterni”.
L’importante è non perdersi d’animo
Paola, quattro figli, ha lasciato Vicenza da così tanti anni che quasi non se ne ricorda. Ha vissuto in Libia, Congo, Olanda poi a Londra e infine è rientrata in Italia. “Ho una laurea in architettura ma non ho mai potuto lavorare perché mi sono sposata e mio marito ha iniziato a girare il mondo. I quattro figli non mi danno il tempo di pensare se ho rimpianti o meno”. Elena, due figli, milanese, si definisce felicemente disoccupata. “Lavoravo come impiegata a Milano”, dice. “Ero sempre scontenta, non avevo mai il tempo di fare nulla. Poi ho cominciato a partire per seguire mio marito che lavora in una multinazionale e la mia vita è cambiata.
Ho scoperto una forza di adattamento, un entusiasmo che non sapevo di avere”. Ora prepara le valigie per la Libia, sua prossima destinazione e non vede l’ora di andare a fare la spesa nei mercatini e di imparare qualche parola di arabo.
Daniela, napoletana, è appena partita per Budapest per seguire il marito, dopo diversi soggiorni a Roma, Madrid, Milano, Londra. Abituata a lavorare da sempre, ha cercato in tutti i luoghi in cui è andata di trovare una nuova collocazione, qualche volta riuscendoci, qualche volta no.
In Inghilterra ha addirittura frequentato un corso professionale di “interior design” con l’idea che un domani avrebbe potuto servirle. “Poteva andarmi peggio”, dice. “L’est Europa è un Paese in movimento e spero di trovare una collocazione. Intanto imparo l’ungherese. Poi si vedrà”.
Lo spirito d’iniziativa è femmina!
Naturalmente a qualche donna va bene. Diuska, trentotto anni, è arrivata a Londra al seguito di un marito che lavora nella finanza. E’ al suo secondo spostamento di sede e carriera e ha deciso fin da subito che non si sarebbe limitata ad accompagnare le figlie ai corsi di tennis e di nuoto. Grazie a una precedente lunga esperienza nel marketing, appena arrivata ha preso contatto con l’ufficio inglese dell’azienda nella quale ha lavorato per quattordici anni e dopo solo tre mesi è riuscita a trovare una collocazione. “Lavoro tre giorni alla settimana come consulente. Ho un computer, un cellulare aziendale e un bel po’ di tempo per stare con le mie figlie. Non posso lamentarmi”.
Stefania, ingegnere, addirittura è riuscita a rendersi talmente indispensabile nel suo posto di lavoro, al punto che la sua azienda le concede di lavorare da casa, in Inghilterra, con il computer e di presentarsi quindi in ufficio, a Milano, due giorni alla settimana. “Sono una pendolare di lusso. L’azienda mi paga l’aereo e l’albergo, per il resto lavoro da casa. Non avendo figli per ora va bene così, ma se dovessero arrivarne, la situazione si farebbe insostenibile. Inoltre ogni martedì, quando parto per l’Italia, vedo che mio marito non è così contento di rimanere solo e sto seriamente pensando di mollare”.
Stefania è disposta a cambiare lavoro per cedere al marito la posizione di manager in carriera della famiglia, ma non tutte la pensano così.
Patrizia, romagnola da anni residente a Venezia, si è da poco ricollocata in una casa di alta moda parigina, portandosi dietro i due figli di undici e due anni, oltre alla baby-sitter. Il marito, architetto come lei, continua a lavorare a Venezia e la raggiunge solo nei fine settimana.
Ma c’è anche l’uomo “casalingo”
Qualche volta, ma molto raramente, è l’uomo che rinuncia alla propria carriera in favore di quella della moglie.
Romano, brasiliano di San Paolo, ha lasciato che la moglie venisse spostata prima in Inghilterra poi nel Connecticut e ha deciso di prendersi un lungo periodo sabbatico per dedicarsi ai due figli. “Per me è stata una grande scoperta: sono io che porto i figli a scuola, li seguo nei compiti, li porto a giocare a calcio. Mi occupo dell’andamento della casa e partecipo alle riunioni della scuola. Un’esperienza esaltante, che ha cementato il rapporto con i miei figli, per i quali sono diventato il vero punto di riferimento. Ma so che non potrà durare per sempre. Tra non molto avrò l’esigenza di tornare a lavorare”.
Emigranti a largo raggio
In un’Europa sempre più veloce, ormai il lavoro non lo si cerca più da Napoli a Milano, ma da Milano a Londra, Parigi, l’est europeo. E’ la nuova emigrazione, quella di dirigenti, manager, professori, che si spostano da un Paese all’altro con una certa disinvoltura. Quando possono, portano con sé la famiglia. Nella sola Germania lo spostamento della capitale da Bonn a Berlino ha fatto sì che il tredici per cento delle coppie dividessero il loro domicilio per motivi di lavoro.
In Italia, dicevamo, il fenomeno non è preso in considerazione, ma non perché non ci siano i numeri. I pendolari familiari, cioè quelli che si spostano tra lavoro e famiglia settimanalmente sono due milioni e mezzo, cioè il quattro e mezzo dell’intera popolazione.
Nel 1950, il tradizionale modello di famiglia era il padre-lavoratore e la madre-casalinga. Oggi negli Usa solo il tre per cento della popolazione rientra in questo schema.
Il mondo USA per le coppie straniere
Negli Stati Uniti, dove in certi servizi sono lontani anni luce dalla vecchia Europa, il problema della “dual career” investe l’intera società e come tale ci si attiva per risolverlo. Molte aziende, al momento del “recruiting”, mettono in conto di dover spendere tempo ed energie per aiutare il partner a ricollocarsi. L’University dell’Iowa ha approntato addirittura un “Dual Career Network” per le mogli o i mariti dei nuovi membri dello staff universitario, che comprende l’assistenza nel redigere un nuovo curriculum, nel sostenere interviste di lavoro, nel negoziare eventuali salari e condizioni, nel mettere in contatto il candidato con altre università o con le aziende locali che possano essere alla ricerca di nuove figure professionali e addirittura nel fornire nomi e numeri di telefono dei cosiddetti “decision makers”, personaggi influenti che possono creare una rete di informazioni utili. Lo stesso viene fatto dalla University of Carolina il cui programma di “Dual Career Couples Network” non è, come tengono a sottolineare, un’agenzia di collocamento, ma un supporto utile a ricollocarsi.
In Italia, invece, non ci sono incentivi per le donne sia straniere sia italiane che tornano in patria e tutto viene lasciato all’iniziativa personale. Per fortuna la rete, ancora una volta, aiuta. Il sito www.expatclick.com è una rete di donne che vivono all’estero che si scambiano consigli, informazioni o, semplicemente, un po’ di compagnia “virtuale” nei momenti di solitudine.
Nota della Redazione: la nostra Collaboratrice parla per esperienza diretta! Da Milano si è trasferita a Venezia e da qui a Londra, con marito e figli, città nella quale risiede e svolge il proprio lavoro di giornalista.
Per saperne di più
Marion Stoltz-Loike
Dual Career Couples: New Perspectives in Counseling
American Counseling Association (March 1, 1992)
M. Haour-Knipe
Moving Families; Expatriation, Stress and Coping
Routledge, London 2001
Pascoe
Homeword bound. A spouse’s guide repatriation
Expatriate Press Limited, Vancouver, Canada 2000
Dual Career Couples
Jeff Bryson, Rebecca Bryson
Human Science Press