Venerdì 26 Aprile 2024 - Anno XXII

Il mistero dell’Armata sparita nel deserto

armata Oasi di Kharga

Due millenni e mezzo fa il re persiano Cambise II, dopo aver invaso l’Egitto, mandò 50amila soldati all’attacco di Siwa, un’oasi rimasta indipendente. La colonna militare sparì fra le dune senza lasciare tracce. Un lontano avvenimento, rivissuto oggi

armataIl Deserto Bianco a nord di Farafra.© Rieger Bertrand
Il Deserto Bianco a nord di Farafra.© Rieger Bertrand

Può un esercito partire da un’oasi per un’altra oasi, inoltrarsi nel deserto e non arrivare mai a destinazione? Senz’altro sì. Ma può quell’esercito (cinquantamila uomini, armati ed equipaggiati di tutto punto) scomparire senza lasciare tracce, né un’armatura, né una spada e neppure un coltellino tascabile? Questo sembra un po’ più difficile. Eppure il Grande Mare di Sabbia, cioè quel settore del Sahara che si stende nell’Egitto occidentale, ai confini con la Libia, potrebbe nascondere sotto le sue dune proprio una grande armata sparita nel nulla.

L’armata sparita, la testimonianza di Erodoto

armata Luxor, il Nilo. © Rieger Bertrand
Luxor, il Nilo. © Rieger Bertrand

Il mistero non è nuovo: dura da più di due millenni. Esattamente dal 524 a.C., quando il re di Persia Cambise II, dopo aver invaso l’Egitto e aver risalito il Nilo fino alla capitale Tebe (oggi Luxor) rivolse le armi persiane contro le oasi, ultimi focolai di resistenza. Fu allora che un esercito composto appunto da cinquantamila uomini partì da Tebe, raggiunse in sette giorni l’attuale oasi di Khargha e proseguì verso il “Paese degli Ammoni” (l’odierna Siwa). Ma “…agli Ammoni i soldati non giunsero mai, né più tornarono indietro…” narra lo storico greco Erodoto.
Sempre secondo Erodoto, a cancellare i persiani dal mondo dei vivi sarebbe stata una tempesta di sabbia, anzi “…un vento insolitamente terribile, che iniziò a soffiare da sud mentre stavano prendendo il rancio di mezzogiorno e che, trasportando cumuli di sabbia, li seppellì…”.
Ma è possibile una cosa simile? Da quando il racconto dello storico greco ha cominciato a calamitare l’attenzione degli archeologi, le scuole di pensiero sono due, entrambe radicali: chi accusa Erodoto di eccessiva fantasia e chi gli crede senza se e senza ma.

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Sulle tracce dei Persiani 

armata Dune nel deserto. © Rieger Bertrand
Dune nel deserto. © Rieger Bertrand

Chi scrive non ha di certo elementi per dirimere la querelle. E tanto meno ha i mezzi e le capacità  tecniche per setacciare le dune fra Kharga e Siwa (seicentocinquanta chilometri in linea d’aria, novecento effettivi) in cerca dell’armata sparita.  Otto spedizioni scientifiche ci hanno già provato e sono tornate a mani vuote. Però anche un profano può avere la curiosità di ripetere l’itinerario dell’armata persiana: per verificare se si può attraversare il deserto da quelle parti, o per provare che venti tirano laggiù, o solo per vedere l’effetto che fa rivivere un mistero a tu per tu. Detto e fatto.

 

armata Su e giù per le dune
Su e giù per le dune

Ripeteremo l’itinerario con un convoglio di quattro Toyota, però al contrario (cioè in direzione Siwa-Kharga) per motivi tecnici. Spiegazione: il Grande Mare di Sabbia è segnato da enormi “barkane”, le classiche dune a scimitarra che hanno un versante a pendenza dolce e l’altro ripidissimo, simil-baratro. Ora, partire da Siwa vuol dire salire sulle barkane dal lato più facile e affrontare l’altro in discesa, dove come noto tutti i santi aiutano: quasi sempre, almeno. Basta fare come si fa col paracadute: chiudi gli occhi e ti butti giù.  Un breve cenno geografico. Siwa è a nord, Kharga a sud. Oggi entrambe sono raggiunte da strade statali asfaltate: Kharga da Luxor (sul Nilo) e Siwa da Marsa Matrouh (sul Mediterraneo). Il problema è in mezzo, perché fra un’oasi e l’altra tutto è come ai tempi di Cambise: non ci sono né strade né piste segnate. Di più: una volta entrati nel Grande Mare di Sabbia, indietro non si torna perché le barkane, se prese al contrario, sono insuperabili. L’unica via d’uscita è a metà strada, deviando a sinistra, dove c’è una terza oasi, Farafrah.

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Il “timore” di Cambise: l’Oracolo di Amon

armata L'oasi di Siwa e il tempio di Amon. © Rieger Bertrand
L’oasi di Siwa e il tempio di Amon. © Rieger Bertrand

Per raggiungere Siwa noi non usiamo la statale, che ci costringerebbe a un ozioso giro via Alessandria: dal Cairo prendiamo una scorciatoia, che taglia il deserto su una buona pista ciottolosa, e in “soli” due giorni siamo nell’oasi. Per strada abbiamo modo di fare qualche incontro interessante: resti militari abbandonati, antichi sepolcri aperti dai tombaroli, che hanno lasciato tibie e teschi e rubato il resto. Ma Cambise non c’entra: i sepolcri sono medievali, i resti militari (tedeschi e inglesi) risalgono solo ai tempi di El-Alamein. Ed ecco Siwa, immenso palmeto verde in un mondo giallo-ocra. L’oasi appare all’improvviso, perché si stende in fondo a una “fossa”, sotto il
livello del mare.  Qua e là il verde è macchiato da un pugno di villaggi. Al centro, su un colle, spiccano le rovine di un antico tempio, già sede di un oracolo di Amon, il sommo dio egizio. Fu proprio per quel tempio che Cambise mandò il suo esercito contro l’oasi: l’oracolo era un punto di riferimento troppo autorevole e troppo indipendente; per sottomettere davvero l’Egitto bisognava farlo tacere.

Arriva il Khamsin!

armata Tempesta di sabbia in arrivo. © Michele Bella
Tempesta di sabbia in arrivo. © Michele Bella

Partiamo da Siwa all’alba del terzo giorno, puntando diritto verso sud. Subito il verde diventa un ricordo, la vita anche. Nel Grande Mare di Sabbia non si vedono neppure quelle rare acacie che punteggiano altre zone aridissime del Sahara. Le uniche tracce umane sono saltuari cumuli di pietre, lasciati come segnavia da chissà quale cammelliere in chissà quale epoca. Ma tra un cumulo e l’altro passano decine di chilometri; il resto è fatto solo di barkane; incontrando le prime, qualcuno lascia
le auto e fa la discesa a piedi. Poi ci si abitua.  A guidarci è un ex-colonnello dell’esercito egiziano, Ahmed El-Mistikaouy: un reduce della guerra del Kippur contro Israele, poi di una guerricciola di
confine con la Libia, infine di anni di “servizi speciali”, leggi caccia a contrabbandieri e tombaroli delle oasi. Insomma, un uomo che col deserto ci va a nozze e che, raggiunta l’età della pensione, non ce la fa proprio a sopravvivere al Cairo, dove risiede e dove rischia un destino simile a quello dell’armata di Cambise: cioè di finire sommerso, sia pure dal traffico invece che dalla sabbia. Per il primo giorno tutto va bene. Poi a mezzogiorno del secondo, mentre siamo fermi per il pasto, il colonnello si rabbuia: “Khamsin!” dice, e subito fa ripartire le auto. Ma cosa gli prende? Khamsin è il nome di un vento del deserto; ma intorno non c’è affatto vento, solo una lieve brezza. Eppure la nostra guida insiste: “Khamsin!”. Raggiunge un posto riparato, fa disporre le auto a V, per far scudo contro un vento che non c’è, e ordina di piantare le tende dietro le auto. Un’ora dopo la brezza diventa bora e il cielo una cappa marrone.

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