Venerdì 22 Novembre 2024 - Anno XXII

Frida Kahlo, oltre il mito

Una donna d’acciaio, una vita da romanzo. Scopriamo l’artista messicana che ha percorso la prima metà del ‘900 dividendosi tra sofferenza e passione, coraggio e allegria, arte d’avanguardia e tradizione, militanza politica ed emancipazione femminile

Autoritratto con collana, 1933
Autoritratto con collana, 1933

Il corpo malato, la vita funestata, i tormenti fisici, gli autoritratti feriti, nella breve carriera artistica la sofferenza fatta arte, originalissima, inquietante. Ma anche: gli abiti sgargianti, i colori, i nastri, i gioielli, i fiori, gli amori; capitoli diversi di una vita drammaticamente travolgente.
Personaggio di primo piano della stagione di massimo fervore culturale e artistico di Città del Messico (nella prima metà del Novecento) all’epoca capitale di esiliati politici, intellettuali, artisti di tutto il mondo, circondata dall’“intellighenzia” internazionale, ecco Frida Kahlo: affascinante, intelligente, volitiva, battagliera, ironica, eccentrica, impulsiva. La sua immagine, riprodotta su gadget turistici di ogni sorta, l’artista messicana è in realtà un personaggio di grande complessità, che rivisitò continuamente la propria immagine; unica costante, il dolore che per tutta la vita le fu compagno. Incarnazione di un Messico esuberante e sensuale, arguto e dolente, imprevedibile e creativo, il volto forte con le inconfondibili sopracciglia unite e lo sguardo. Quello sguardo come una spada.

La Casa Azul nel quartiere coloniale di Coyoacàn

Il patio di Casa Azul
Il patio di Casa Azul

Ho abitato per un paio d’anni a due passi dalla Casa Azul, luogo della nascita e della morte di Frida Kahlo. Conosco la suggestione invadente di quei luoghi nel quartiere coloniale di Coyoacàn, all’epoca della nascita di Frida sobborgo di Città del Messico, oggi (quasi) irreale parentesi di tranquillità nel sud della megalopoli. Il cuore in una piazza, plaza Hidalgo con il vicino Jardin Centenario; i caffè, i ristoranti, le librerie, la chiesa, l’animazione di musicisti e ambulanti, intorno le vie lastricate, le piazzette; ecco l’armonioso contorno della Casa Azul, il tempio di Frida dalle pareti blu messicano al numero 127 di calle Londres, visitatissima.
“…All’interno è uno dei luoghi più straordinari di Città del Messico: una casa di donna, con tutti i suoi dipinti e le cose che le appartenevano, trasformata in museo”, si legge nella viscerale “Frida. Vita di Frida Kahlo” di Hayden Herrera, critico d’arte americana considerata tra i massimi esperti mondiali della pittrice messicana. La Casa dove l’artista abitò, in modo alquanto intermittente, con il marito Diego Rivera, uno dei tre grandi muralisti che dominarono la scena artistica del Paese nella prima metà del XX secolo.
Intorno al rigoglioso giardino, gli ambienti quali erano quando furono residenza degli artisti, fortemente segnati dalla presenza di Frida: numerose sue opere, la tavolozza e i pennelli, gli abiti, una bella collezione di arte popolare messicana, dipinti di artisti locali, tele di epoca coloniale, disegni e opere di Diego Rivera, sculture pre-ispaniche (la splendida collezione pre-ispanica di Diego è custodita, a sud di Coyoacàn al numero 150 di calle del Museo, nell’Anahuacalli, la “piramide” in pietra vulcanica progettata dal muralista).
E “… dentro una vetrina di cristallo il ‘Diario’ scritto e illustrato da Frida Kahlo e composto da 171 tavole; un quaderno rilegato in pelle, sul dorso del quale appare l’iscrizione ‘Poems’ e porta frontalmente le iniziali di J.K. L’amico che glielo regalò a New York disse che era appartenuto a John Keats, il poeta inglese morto a Roma nel 1821”, si legge nell’illuminante saggio fresco di stampa di Maria Cristina Secci “Con l’immagine allo specchio. L’autoritratto letterario di Frida Kahlo”, che fa emergere prospettive inedite sulla pittrice messicana.

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Il dolore si trasforma in arte

La collana rotta, 1944
La collana rotta, 1944

“Di sé stessa diceva: pensavano che fossi una surrealista ma non lo ero. Non ho mai dipinto sogni. Ho dipinto la mia realtà”. Originalissima, di straordinaria intensità, apprezzata da Breton (la cui visita in Messico nel 1938 le spalancò le porte dell’ambiente surrealista) Picasso, Kandinskij, Duchamp, Mirò oltre che dal marito Diego Rivera, la pittrice messicana guardava oltre l’aspetto esteriore della realtà, ma il vero tema dei suoi dipinti era lei stessa: Frida ritraeva la propria tragedia, il corpo offeso, straziato, sanguinante, che si sgretola, esponendosi allo sguardo, aprendosi, il petto squarciato quasi in un rituale pre-ispanico. Nelle continue rivisitazioni della propria immagine, Frida riusciva a trasformare il dolore in arte, traendone forza. Gran parte dei suoi dipinti sono autoritratti, oltre a nature morte visionarie.
“Un autoritratto, ancora prima di essere realizzato, richiede non solo un’ispezione, ma spesso una rielaborazione della propria immagine” sostiene Maria Cristina Secci nel recente saggio, ricco di spunti per approfondire l’arte della Kahlo attraverso il suo “Diario”, dove esiste una “forte contaminazione tra scrittura e pittura” e nel quale “la Kahlo sperimenta tecniche ed applicazioni nuove rispetto alla sua pittura pubblica”. Nel Diario – riferisce la Secci – l’autrice si definisce “colei che dà il colore” e del suo compagno “quello che vede i colori”. Con la propria opera pittorica Frida dialogava (anche) con Diego, conosciuto quand’era giovanissima, esordiente pittrice, sedotta e influenzata (inizialmente) poi affrancatasi artisticamente. Diego ebbe a scrivere dell’opera della moglie: “lavoro acido e tenero, duro come l’acciaio e delicato e fine come l’ala di una farfalla, adorabile come un sorriso, profondo e crudele come l’amarezza del vivere” (H. Herrera). “Frida, che nel suo lavoro artistico non era entrata in competizione con Rivera, ma neppure gli si era mostrata deferente e che, dei due, non pochi critici avveduti ritengono fosse il pittore migliore” (H. Herrera).

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