Dovevano essere 17 km, alla fine sono stati 20. Ma non importa. La prima tappa del pellegrinaggio è andata bene: da Forlimpopoli a Castrocaro via Forlì, ce l’abbiamo fatta senza problemi. Dalla Casa Artusi, il centro polifunzionale del comune forlimpopolese ricavato dall’ex convento dei Servi (scuola di cucina, biblioteca gastronomica, biblioteca comunale, ristorante, mobilio originale di Pellegrino anche se la vera casa natale del gastronomo è andata distrutta) alla dinamica realtà forlivese (belli i progetti di valorizzazione dell’architettura razionalista del ventennio e il grande parco periurbano, pulitissimo, con tanto di conigli selvatici che scorrazzano). Poi lunga scarpinata costeggiando la campagna, tra i pescheti in fiore e le fortificazioni della Città del Sole, urbe ideale voluta dal Granduca Cosimo I de’ Medici, figlio del leggendario Giovanni dalle Bande Nere, quello de “Il mestiere delle armi” di Ermanno Olmi.
E infine l’arrivo a Castrocaro, le terme e il declinante festival delle voci nuove, i progetti di rifacimento della curvosissima statale 67 toscoromagnola (la fece costruire Leopoldo I per collegare Livorno a Ravenna e il tracciato è più o meno il medesimo: ora si cerca di fare un tunnel sotto il Passo del Muraglione senza compromettere – giurano – il percorso storico) e la voluttà dei bagni termali.
Il tutto condito, alla fine, da una cena artusiana al bellissimo Grand Hotel progettato e decorato da Tito Chini. Apertura con cappelletti in brodo che da soli valevano tutto il resto (senza nulla togliere al resto).
Folklore vario tra i partecipanti, nessuna defezione (per ora), muscoli talvolta dolenti ma comunque guizzanti.
Secondo giorno i km diventano 24: da Castrocaro a Portico di Romagna, via Dovadola. Si comincia a fare sul serio. Si intrecciano i motteggi e le reciproche conoscenze. Fioccano le foto ed i filmati. Si stringono i rapporti. Si colgono le convergenze. Si stringono mani. Si continua a brindare a champagne (finché durano le scorte… ). A rileggerci