Giovedì 21 Novembre 2024 - Anno XXII

Transilvania graffiti. Una stilografica nel pollice

Storie vere e italiane dalla Romania post-comunista. Dove il riscatto di una ruralità quasi cancellata dal collettivismo riaffiora dalla tradizione contadina. Nascosti perfino tra le pieghe del grigiore burocratico. Nasce così Petro Vaselo, la prima azienda vinicola rumena a capitale nostrano

Campagna rumena (Foto: flickr.com-romaniashots)
Campagna rumena (Foto: flickr.com-romaniashots)

La sensazione che ci fosse qualcosa di strano, o almeno di inusuale, Roberto l’aveva avuta giorni prima, quando il direttore della banca l’aveva invitato ad andare allo sportello a ritirare il denaro: “Niente assegni o bonifici – gli aveva detto – qui, nelle campagne, si usa così: si paga in contanti”. E lui si era ritrovato a dover comprare alcune valigie per trasportare i miliardi di svalutatissimi lei necessari a concludere quella pur modesta transazione. Oltre a contarli tutti, naturalmente, impilati com’erano su un’intera scrivania.

Ciononostante, quella mattina Roberto si era alzato di buon umore, con un sentimento misto di sollievo e di soddisfazione: finalmente si firmava il contratto. Tutto era a posto: carte, mappe, nomi, accordi, permessi, verifiche, timbri. Si apprestava ad acquistare i terreni per dar vita a una nuova azienda vitivinicola sulle ceneri della Romania ex comunista e dei suoi disastri agronomici, ambientali e sociali.

Anni di “rapporti sociali”
Transilvania graffiti. Una stilografica nel pollice

Non era stato un percorso facile, anzi. Tre anni c’erano voluti per reperire tutti i proprietari di trecentoquaranta minuscoli appezzamenti, spesso in condominio tra numerosi e riluttanti eredi. Era stato necessario prima vincere la loro diffidenza e poi superare prove di pazienza certosina per valicare la muraglia legale e burocratica che lo separava dall’obbiettivo. La fase di restituzione ai legittimi proprietari, da parte dello stato, dei beni fondiari confiscati dal comunismo non si era ancora del tutto conclusa. L’incertezza dei diritti era massima. Gli equivoci e i trabocchetti dietro ogni angolo. Per non parlare della malizia di intermediari e di alcuni venditori. Verifiche incrociate, trascrizioni di garanzia, acrobazie contrattuali. Tutti nodi sciolti uno per uno, districando intrighi prodotti da mezzo secolo di espropri, di collettivismo, di catasti perduti o mai esistiti e norme riparatorie che spesso avevano provocato lacune più grandi del buco. E che nessuno, in fin dei conti, aveva l’interesse a colmare. Così quei pezzetti di terra erano rimasti sospesi per qualche lustro tra la titolarità virtuale e il disinteresse sostanziale di tutti. Abbrutendosi ulteriormente in una specie di penoso patchwork fondiario.

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Le colline della Feteasca
Feteasca
Feteasca

Comunque, alla fine, ce l’avevano fatta. E mentre, sistemato il nodo alla cravatta, Roberto afferrava la ventiquattrore e si apprestava a lasciare la sua camera d’albergo, a Timisoara, ricordava con un vago senso di euforia i tempi in cui per la prima volta si era avvicinato a quelle basse colline argillose del Banato, a est della città. Un anfiteatro di campi curvilinei sul quale, sotto una livida scorza fatta di macchia selvatica, boscaglia, terra impaludata dall’abbandono, pascoli malfermi e sterpaglie, egli aveva subito immaginato una distesa di vigneti, geometrie di filari, squadre di potatori chini all’opera, carri colmi d’uva diretti in cantina e avvolti dal profumo del mosto. Un riscatto per l’agricoltura, la gente, la terra stessa. E per la Feteasca, il vitigno autoctono rumeno, che nelle sue diverse tipologie avrebbe trovato posto in azienda a fianco delle solite varietà-pioniere del Merlot e del Cabernet Sauvignon.

Montagne di documenti e di Lei
Transilvania graffiti. Una stilografica nel pollice

E invece. Invece quella variopinta umanità di operai e contadini erano proprio la sua controparte contrattuale. I contraenti, insomma. Deleghe? Mandati? Neanche a parlarne. Erano venuti lì di persona, come la legge impone ma soprattutto gli usi vogliono, per sottoscrivere il contratto di compravendita, stringersi la mano, scambiarsi baci augurali. Vedersi in faccia. Così si fa. E incassare il corrispettivo, ovviamente. Così Roberto, superata la sorpresa, si mise di buzzo buono per affrontare la maratona, ammirando tra lo stupito e il divertito l’organizzazione di quello che, anziché la stipula di un contratto, era diventato un complesso rito collettivo.

Il serpentone era organizzato in quattro stadi. Fuori dalla porta i venditori, uno dietro all’altro. Appena dentro al portone, prima selezione: identificazione, individuazione del terreno, verifica delle carte e storno secondo la tipologia contrattuale. Di qua la compravendita diretta (per chi subito poteva disporre della proprietà della terra e quindi cederla), di là la promessa irrevocabile di vendita con comodato perpetuo accessorio (per chi, avendo acquistato dallo Stato, era ancora vincolato dal divieto decennale di cessione a terzi).

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Tutti in fila per la vendita
Transilvania graffiti. Una stilografica nel pollice

Certo, diceva da tra sé e sé raggiungendo in taxi il municipio del villaggio di Petrovaselo, qualche centinaio di anime a una trentina di accidentati chilometri dalla città, siamo ancora lontani dalla meta. Ma guardandosi alle spalle non poteva non respirare a pieni polmoni l’aria fresca dell’impresa appena compiuta. Quella di cui stava per celebrare il suggello, apporre il sigillo: il sindaco, il notaio, gli avvocati, la firma e via, verso il futuro. La prima cosa che notò arrivando alla casa comunale fu la coda. Una coda interminabile di gente modestamente vestita ma ordinata, silenziosa, allineata in fila indiana davanti all’ingresso. Donne con gli stivali e il fazzoletto intesta, uomini tarchiati, anziane coppie, gruppetti familiari. Erano in centinaia. Pazienti e composti, addestrati ad attendere senza protestare da decenni di socialismo reale. Ma Roberto ancora non sapeva che erano lì per lui.

Ultimo atto, la “firma” col pollice
Transilvania graffiti. Una stilografica nel pollice

Step numero tre: pagamento in contanti, conteggio dei soldi, firma del contratto e della ricevuta. Quarto step: incontro formale tra Roberto e i venditori, dove il nostro si alza dalla sedia, stringe la mano a lui e riceve da lei un casto bacio che suggella l’intesa. Come si usava una volta, in campagna. Potenza e valore dei gesti.

Col passare delle ore, sul tavolo cresceva la pila dei contratti firmati. Un po’ per impazienza e un po’ per curiosità, a Roberto gli ci casca l’occhio e comincia a sfogliarli: tanta carta, qualche timbro. E, tra le firme più o meno incerte, alcune impronte digitali. Solo allora lui se ne rese conto: alcune delle sue controparti erano analfabeti. Nulla di strano, in verità, in qualsiasi ambiente rurale di tutto il mondo. Compreso il nostro. Ma era strano il modo, la sua fisicità. una fisicità che andava oltre la banale croce vergata su un foglio di carta. Come impone la legge rumena, quei solidi agricoltori avevano sottoscritto il documento nell’unico modo possibile.

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E al tempo stesso, forse, l’unico che a loro sarebbe comunque potuto apparire naturale, indelebile e affidabile: imprimendo sul foglio il loro polpastrello. Un gesto molto personale. Strettamente personale. Quasi intimo. Un sigillo, insomma. Era nata Petro Vaselo, la prima azienda vitivinicola italiana in terra di Romania.

 

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