Sabato 20 Aprile 2024 - Anno XXII

Kenya: Viaggio nella “Culla dell’Uomo”

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Continente africano, nord del Kenya. Viaggio tra le tribù indigene del Corno d’Africa minacciate dalle siccità: Turkana, Samburu, Rendille, El Molo. La zona è riconosciuta Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO per la sua eccezionale ricchezza ecologica e culturale

Turkana

Continente africano, nord del Kenya. Dalla capitale Nairobi, oltre 10 ore di guida su 250 km di strade dissestate ci conducono nell’estremo nord del Kenya, lontano dagli itinerari battuti dei safari. È quasi il tramonto quando davanti a noi si spalanca il paesaggio di un altro pianeta. Siamo sulle rive del lago Turkana, il più grande lago di deserto al mondo. Una distesa di zaffiro circondata da altopiani dalle roventi tinte marziane, punteggiati da picchi vulcanici, alberi di acacia e grappoli di fiabeschi ngaji o akai, capanne a iglù fatte di un intreccio di rami secchi. È qui che vivono le tribù indigene più incredibili dell’Africa: ultimi discendenti della leggendaria e ormai morente “Culla dell’Uomo”.

Cambiamenti climatici. La vegetazione cede al deserto

Turkana

È emozionante sentire le gomme del fuoristrada scricchiolare sulla terra dove, secondo i paleontologi, il primo uomo si mise in posizione eretta per incamminarsi sul suo sentiero di futura gloria. La zona è riconosciuta Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO per la sua eccezionale ricchezza ecologica e culturale. L’ecosistema del lago, unico nel suo genere, permette di praticare la pesca e la pastorizia in alternanza grazie a un eterno ciclo di alta e bassa marea. Questo ecosistema ha consentito ad ancestrali tribù, come i Turkana, i Samburu, i Rendille e gli El Molo, di vivere per secoli una dura esistenza nelle aride periferie delle sponde del lago, considerate uno degli ambienti più ostili della Terra. Difficile immaginare che in epoche passate al posto di questo deserto roccioso c’era una vegetazione rigogliosa con zebre ed elefanti, tutti sterminati dal cambiamento climatico e dalla caccia tribale.

Turkana: Tribù a rischio estinzione

Turkana

Ora a rischiare l’estinzione sono le stesse tribù, tra le vittime più vulnerabili della carestia che sta devastando il Corno d’Africa. Per questo un’avanguardia di tecnici della Croce Rossa Italiana ha appena ripetuto il nostro medesimo viaggio. L’obiettivo era perlustrare l’area in preparazione della missione di soccorso che sta iniziando proprio in questi giorni. “L’insieme dei villaggi dove intereveniamo conta 80 mila persone, una frequenza di nascite di 25-30 bambini a settimana e un tasso di malnutrizione che raggiunge il 38 per cento della popolazione”, spiega Francesco Rocca, Commissario della Croce Rossa, “Utilizziamo delle stazioni mobili, ossia veicoli Iveco attrezzati come ambulatori che svolgeranno attività nutrizionali e pediatriche e saranno in grado di raggiungere la popolazione nelle aree remote, dove non si ha più accesso ad acqua e cibo”. A facilitare il compito dei medici italiani ci penseranno gli stessi riti locali: presso le tribù vige infatti l’usanza di estrarre il dente centrale inferiore ai bambini con dentatura già adulta, al fine di facilitare la somministrazione di sostanze curative.

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Gli interventi della Croce Rossa

Turkana Foto: Croce Rossa Italiana
Foto: Croce Rossa Italiana

La Croce Rossa intende anche costruire nuovi pozzi d’acqua per far fonte alle sempre più ricorrenti siccità. Queste calamità naturali, unite al disboscamento a opera degli stessi autoctoni, stanno riducendo i rari pascoli di arbusti, decimando il bestiame da cui dipende la fragile economia di sussistenza delle comunità locali. Molti di esse si spostano costantemente in cerca di acqua ed erba, percorrendo anche 300-400 chilometri durante la stagione secca.
I Turkana sono l’etnia più nomade, muovendosi con i muli che servono loro anche da cibo, contrariamente alle altre popolazioni che si nutrono solo di cammelli e capre. Avvistiamo qua e là piccole carovane: i muli hanno in sella le capanne di rami secchi ripiegate come tende da campeggio. La maggior parte di esse sono dirette al monte Kulal, antico vulcano spento che sovrasta il lago Turkana. “È li, presso il villaggio lacustre di Santuru, che staziona la gran parte degli animali d’allevamento”, spiega la nostra guida di nome Sami, un giovane nativo di Loyangalani, unico centro abitato attrezzato per il turismo nello spazio di centinaia di chilometri. “Coloro che vivono nei pascoli più distanti dal lago devono marciare fino 40 Km ogni giorno per rifornirsi di acqua”, aggiunge Sami. Capiamo così che non era benzina ciò che qualche ora prima avevano tentato di chiederci, in una lingua a noi sconosciuta, dei ragazzini accorsi alla nostra auto brandendo sudice taniche di plastica.

Il villaggio Ajeni e la tribù degli El Molo

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Spegniamo finalmente il motore sulla riva del lago dove sorge il villaggio di Ajeni. È questo l’ultimo baluardo della piccolissima tribù degli El Molo che significa “coloro che non si allontanano dal lago”. Si tratta della comunità più marcata dall’iper-assistenzialismo umanitario e dal turismo di massa che li hanno resi economicamente dipendenti, distogliendoli dalle loro attività tradizionali. “Quando sono nato, la cultura della mia gente era già in via di estinzione, i miei genitori già non parlavano la nostra lingua originaria, i nostri costumi sono stati progressivamente sostituiti con quelli delle altre e più grandi popolazioni”, racconta il capo-villaggio (dal curioso nome) Numero Due, secondogenito della sua famiglia.

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Usanze matrimoniali: mogli e dote

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Anticamente, il futuro sposo El Molo doveva portare in dote coccodrilli, tartarughe e denti di ippopotamo, creature da tempo scomparsi dal lago e ormai rimpiazzate con animali da pascolo, secondo la moda dei Turkana e dei Samburu. La sopravvivenza di queste usanze matrimoniali è anch’essa minacciata dalla siccità e dalla riduzione di bestiame. Secondo il vigente sistema poligamico, a un uomo sono concesse tante mogli quante può ottenerne in cambio del proprio bestiame. È il padre della sposa a decidere il numero di animali da chiedere in dote. I matrimoni combinati costituiscono tuttora un elemento cruciale del tessuto socio-economico: quando una famiglia ha pochi animali dà in sposa una delle figlie per riceverne degli altri, quando invece ne ha molti li cede in cambio di una moglie per i propri figli in modo da garantirsi progenie e braccia giovani per il proprio sostentamento.

Usanze e riti funebri

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Le cerimonie della vita altrettanto interessanti come quelle della morte. Abbiamo la fortuna di assistere dal vivo a un rito funebre mentre riprendiamo la via del deserto. Un gruppo di persone sta abbrustolendo carne di capra e spargendola, insieme a un miscuglio di latte e tabacco, su tumuli di pietre circolari che non sono altro che i sepolcri degli avi: quanto basta per placare l’ira dei defunti che si manifesta attraverso disgrazie o brutti sogni premonitori. La sepoltura, tuttavia, è stata introdotta dai missionari cristiani. Anteriormente, si lasciava che le iene divorassero i corpi in modo che lo spirito potesse liberarsi dalla corruzione della carne.

All’ombra del grande albero il consiglio degli anziani

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Concludiamo la nostra esplorazione etnologica rientrando al capoluogo Loyangalani che significa “il luogo degli alberi”. Nome azzeccatissimo. Infatti, mentre ci avviciniamo, scorgiamo in lontananza la rudimentale sede del consiglio direttivo del villaggio: un grande albero d’acacia alla cui ombra siedono gli anziani, adunati per discutere le questioni d’interesse comune. Alcuni di loro portano gli apelpel, istoriati bastoni di legno, segno che sono sposati. Per le donne invece la fede nuziale consiste in orecchini, sul lobo inferiore o superiore a seconda che siano Samburu o Turkana. Queste ultime usano anche rasarsi il capo lasciando solo un ciuffo centrale. Tutte le donne, quale che sia la tribù di appartenenza, si adornano di appariscenti collari multicolori che anticamente erano fatti di pietre preziose, oggi sostituite da palline di plastica acquistate a Nairobi. Lo stesso ornamento è in voga presso i giovani cacciatori moran durante il duro eremitaggio iniziatico necessario per essere consacrati veri uomini. Sono però le mogli della tribù Rendille a portare il collare dalla foggia più appariscente: il mporro, un alto cerchio legno intarsiato di schegge di rubino.

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Acacia l’albero per ogni cosa

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Il legno dell’albero di acacia serve praticamente a tutto: oltre a farne capanne, collari e minisgabelli portatili, le tribù utilizzano i ramoscelli più fini come spazzolini da denti, mentre i grossi frutti oblunghi calabash, una volta svuotati e induriti, diventano otri per conservare acqua e latte. Prima di intraprendere il nostro lungo viaggio di ritorno verso Nairobi, incontriamo un certo Julius Dabalen, studente alla scuola di guida di mezzi meccanici nella lontana capitale. Quando gli chiediamo perché indossi la maglietta con la foto di Bob Marley, che va ormai a ruba nei negozi di Loyangalani, ci risponde che il governo gli vieta di indossare gli abiti tradizionali. Prima che l’uomo e la siccità distruggano ciò che resta di quest’incomparabile cultura tribale, vale la pena lanciarsi nell’avventura su una 4×4 per venire a scoprirla di persona.

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