Venerdì 3 Maggio 2024 - Anno XXII

Un treno nel deserto africano

foto-Emesik

Un viaggio “lento” in bicicletta dalla Spagna al Mali. A compierlo una giovane coppia che si mette in cammino con la voglia di toccare con mano l’Africa più vera. Per 5 mesi e più di 6.000 chilometri di pedalate, Marianita e Tobias si confrontano con paesaggi ed esperienze di vita. Mondointasca vi propone uno dei capitoli di “Lentamente l’Africa”, Ediesse Editore

Un treno nel deserto africano

Scaricammo velocemente le bici aiutati dalla famiglia di mauritani. Alcuni di loro restarono sul treno, altri scesero con noi. E nell’arco di qualche secondo ci ritrovammo in piedi nel mezzo delle due rotaie sulla sabbia mentre il grande bruco scompariva nel buio pesto. Lo stesso buio che sembrava aver inghiottito i passeggeri scesi lì. Intorno a noi non c’era anima viva. Solo un uomo appoggiato ad un pick-up.
«Dov’è Choum?» chiesi a Tobi ancora intontita dal viaggio.
«Non lo so!» mi rispose guardandosi intorno.
Dopo 500 km di tragitto la cui meta finale e unica fermata era Choum mi aspettavo per lo meno una città visibile anche nell’oscurità.

«Choum?» chiese l’uomo del pick-up e senza aspettare una mia risposta mi indicò un punto indefinito nel buio dietro di lui mentre caricava sulla sua macchina i bagagli dei due austriaci. Dopo pochi minuti la macchina scomparve e rimanemmo solo io, Tobi e Yoshi. Dirigendoci verso il punto oscuro indicatoci dall’autista, cinquecento metri dopo eravamo al centro di un gruppo disordinato di case intorno ad un pezzo di sabbia in un silenzio assoluto. Erano le quattro e mezzo del mattino, Choum sembrava più una grande fattoria che una città. Un posto che in una qualsiasi carta europea non sarebbe nemmeno stato segnato. La sola luce che illuminava debole il gruppo di case era quella di un bazar aperto.
Comprammo acqua e biscotti, facemmo un tè e ci mettemmo a dormire per terra nel pezzo di cemento davanti al negozio. Il resto era solo polvere e spazzatura. Due ore dopo eravamo in sella. Il sole stava sorgendo e gettava luce sulle dieci case di Choum. Il proprietario del bazar venuto a riaprire bottega ci svegliò brusca-mente.
«Non potete stare qui!», disse spostando con i piedi una delle mie borse.
«Andate via che allontanate gli altri clienti».

Nouadhibou-foto Radoslaw Botev
Nouadhibou-foto Radoslaw Botev

L’unica anima viva era una capra che cercava di mangiarsi le briciole dei nostri biscotti. Mentre Yoshi accendeva il suo tecnologico GPS, Tobi aveva già iniziato a pedalare.
«Dovete solo seguire il promontorio, fino alla fine» ci aveva detto a Nouadhibou un uomo francese che aveva fatto il viaggio in bici sette anni prima. E alla nostra sinistra in lontananza c’era in effetti un promontorio nero di cui non si vedeva la fine.
Non c’era nulla se non qualche cammello
, cespugli spinosi e strane colline nel deserto.
In tutto il Marocco non avevamo visto niente di comparabile a quella grandiosità.
Non avevo mai provato qualcosa di simile. Una libertà di movimento spaventosa. Niente strade, niente direzione predefinita, solo la vertigine delle mille possibilità. Nessuna percezione di distanza o dimensione. La montagna era il solo elemento di riferimento in quel paesaggio così vasto e ripetitivo in colori e forme. Sul terreno solido ma poroso lasciavamo traccia del nostro passaggio e seguivamo le impronte di qualche jeep. Non era più il rumore tecnico dei pneumatici sull’asfalto, ma quello incerto della terra secca che scricchiolava e cedeva sotto il peso della bici, a ritmare l’andatura. Intorno a noi solo un vasto paesaggio continuo: a sinistra la montagna che dovevamo seguire, davanti le svariate sfumature giallastre del deserto e a destra una pianura inclinata fatta di terra e colline rocciose.

Per la prima volta dovevo concentrarmi sul suolo, spostarmi quando diventava troppo friabile, continuare quando l’attrito non era troppo, e poi abituarmi alla sabbia sotto le ruote che mi sorprendeva come lastre di ghiaccio sul cemento. Non resistere allo slittamento che provocava ma continuare a pedalare per mantenersi in equilibrio. Più volte ci ritrovammo a spingere le bici sulla sabbia profonda almeno dieci centimetri. Tobias davanti, io e Yoshi più indietro. Chinata sulla bici, spingevo e spingevo, maledicendomi per i chili di troppo dei miei bagagli. Il mio corpo era teso in avanti, inclinato a quarantacinque gradi da terra. Con lo sguardo fisso sul terreno, stringevo i denti quando la sabbia era troppo spessa. A volte mi guardavo intorno e tutto mi sembrava assurdo. Non sapevo bene cosa stessi facendo; non capivo bene come fosse possibile trovarsi con una bicicletta di quaranta chili nel cuore della Mauritania in mezzo ad un mare di sabbia.

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Tobias era già lontano, come un cane che annusa, perlustra, avanza per tracciare la strada, per verificare la direzione, seguendo una pista invisibile all’occhio umano ma che per lui è chiara e sicura. Completamente a suo agio nel niente senza fine apparente che ci circondava, senza meta per la sera solo tragitto e sudore sulla pelle. Per me invece, a volte tutto rasentava l’assurdità. Non mi abituavo al non avere una direzione chiara all’andare avanti senza pensare di raggiungere un punto predefinito prima che facesse buio, a sapere che una volta arrivata la sera avremmo montato le tende da qualche parte, poco importava dove.

Verso l'oasi di Atar, Mauritania. Foto di Marianita Palumbo e Tobias Mohn
Verso l’oasi di Atar, Mauritania. Foto di Marianita Palumbo e Tobias Mohn

Sì, restaurant! Solo che vendevano solo biscotti scaduti da mesi. Ci rifocillammo con il tè che ci preparò la figlia dell’uomo in blu che insisteva per uccidere un agnello e mangiarlo tutti insieme. Pagammo i biscotti scaduti e riempimmo le bottiglie con dell’acqua contenuta in una vecchia tanica di benzina. Da l in poi procedemmo più veloci: il suolo era più solido, il caldo diminuito. Ma dopo altri 35 km anche la più piccola parte del nostro corpo reclamava riposo. Una jeep passò a qualche chilometro di distanza: voleva dire che stavamo andando nella direzione giusta. Piantammo le tende in un angolo tra grandi pietre disseminate sulla sabbia per proteggerci dal vento. Tutti e tre ci stringemmo intorno ad un grande fuoco per allontanare serpenti e altri animali.

Faceva freddo ma il cielo così gravido di stelle era talmente impressionante che non riuscivamo a deciderci ad andare a dormire. Non un suono, non un movimento. Al risveglio, la pista era meno sabbiosa ma il vento aveva cambiato direzione. Un sentiero ondulato ci mise alla prova per un po’ di chilometri. Sembrava di pedalare sopra un tetto di lamiera, tutto il corpo tremava ed era facilissimo perdere l’equilibrio. Finalmente, nel mezzo della polvere sollevata da una jeep, scoprimmo la strada che portava al passo fin sopra all’altopiano. Dopo una curva, dentro una specie di gola rocciosa, il paesaggio cambiò colore. La sabbia non era più bianca ma rossiccia, dello stesso colore delle dune di Merzuga. Un’infinita lingua arancione che apparve all’improvviso e che ci portò giù e poi su nell’altopiano assecondando le fratture della roccia sottostante.

Eravamo sul letto di uno di quei fiumi sulle sponde dei quali nel Neolitico si sviluppava ancora vita. Ora era uno spazio vuoto tra un promontorio e l’altro. A perdita d’occhio deboli alberi spuntavano dalla sabbia e più in là un villaggio poco più grande del precedente “Restaurant” fatto non di capanne di paglia ma di tele tese tra strutture di metallo. Altri bambini, altri biscotti scaduti, altro rifornimento d’acqua altre pillole disinfettanti, altra pasta cotta nell’acqua già scaldata dal sole, all’ombra di un albero d’acacia. Mentre riposavo mi immaginavo le radici che doveva avere quell’albero, almeno tanto grandi quanto la chioma, E mentre guardavo le foglie che non erano foglie ma spine appuntite, chiusi gli occhi e mi addormentai… Non credevo che il verde, il semplice verde potesse d’improvviso sorprendermi come una parola alla quale si pensa intensamente per la prima volta dopo averla usata senza riflettere né sul significato né sul suono.

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Oasi di Azougui
Oasi di Azougui

D’improvviso verde, il verde di un’oasi, di un appezzamento di terra coltivato, delle chiome di qualche albero sparso. Verde che vuol dire acqua, acqua che vuol dire vita, vita che vuoi dire esseri umani, esseri umani che vuoi dire città. Ad ogni metro di paesaggio si arricchiva di dettagli famigliari che significavano presenza dell’uomo sulla terra: capanne, piccoli campi coltivati, sentieri marcati sul terreno e la strada asfaltata che a partire dell’oasi di Azougui ricominciava in direzione del capoluogo della regione. Abbandonare la sabbia e ritornare al cemento fu come riagganciarci ad una realtà conosciuta, uscire dall’incerto, ma libero, movimento sulla terra nuda; scrollarsi di dosso la sabbia e inserirsi di nuovo in quella rete di percorsi, cammini, sentieri battuti da altri prima di noi: tutte le forme di gestione della distanza che l’uomo ha prodotto sotto forma di strade che percorrono la terra con la stessa capillarità con cui le vene del sangue irrigano il corpo umano. Per un momento durato due giorni non eravamo più di questo mondo e ciò era abbastanza visibile sul volto dell’uomo dalla faccia scura e dall’ennesimo vestito blu che alle porte di Azougui ci vide passare e ci invitò a casa sua per un tè.

Atar
Atar

Ci chiese dove andavamo, ma si capiva che il vero interrogativo era da dove venivamo. Da dietro, da li, dove non c’è nulla e i chilometri di nulla si percorrono normalmente in veloci quattro per quattro. L’ultimo tratto di strada dopo il villaggio era come la coda di un serpente attorcigliato ad una roccia. Poco più di cinquecento metri di salita. Io socchiudevo gli occhi, fissavo la riga gialla sull’asfalto per non guardare la salita. Mi concentravo sul ritmo del movimento, spingevo i pedali più a fondo che potevo, muovevo tutto il corpo avanti ed indietro, per aiutare il movimento meccanico della bici. Poi tutto di un colpo arrivammo su e ci ritrovammo come sentinelle appostate sulla torre più alta di un impero vastissimo. Con le gambe tremanti buttammo le bici a terra.
Davanti a noi un paesaggio senza fine
che sfumava in un vuoto color pastello. Solo sabbia, cespugli e il letto del fiume che dall’alto si distingueva nettamente. Guardando ad ovest una sottile ferita nel deserto roccioso: era la strada che avevamo percorso. Mi sembrava impossibile aver conquistato centimetro per centimetro quel paesaggio immenso. Ad est la città di Atar, un po’ più in basso, giù dall’altopiano.

 © Claus Qvist Jessen
© Claus Qvist Jessen

Due ore dopo era mezzogiorno. Avevamo fatto solo venticinque chilometri ed eravamo già senz’acqua. Sotto gli occhi infuriati di Lobi, io e Yoghi controllammo le nostre riserve d’acqua no non ne avevamo perse per strada o dimenticate. Le bottiglie erano semplicemente vuote. Faceva un caldo insostenibile, bevevamo come spugne, sudavamo come cavalli al galoppo. Intorno a noi un paesaggio di enormi pietre buttate qua e là in mezzo al nulla. Di tornare indietro non se ne parlava: per gli ultimi cinque chilometri non avevamo fatto altro che spingere le bici ed eravamo ancora molto lontani da qualsiasi centro abitato. D’improvviso due figure apparvero controluce dietro una duna.

Un uomo e suo figlio avvolto m una giacca di feltro certamente troppo grande per lui trasportavano una tanica d’acqua mezza piena. «Acqua?» chiese Lobi.

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Un treno nel deserto africanoL’uomo alzò il braccio e indicò un punto tra due dune verso ovest. Parlava di un accampamento beduino. E mentre io cercavo di capire meglio Tobia si era già incamminato sotto i miei occhi increduli. Ma dove pensava di andare? Ma come poteva immaginare che lì, tra due dune, da qualche parte, ci fosse una tenda beduina con dell’acqua per noi? Non provai nemmeno a fermarlo anche se tutto mi pareva completamente assurdo. Appoggiai la bici e mi sedetti su uno di quei grandi massi disseminati sulla sabbia. Padre e figlio sedettero poco distanti in attesa di non si capiva bene cosa. Mentre io mi decisi a fare un fuoco per cucinare della pasta, Yoshi tirò fuori tutto il suo armamentario tecnologico. Dalla sua faccia era difficile capire cosa pensasse del nostro modo di viaggiare: accendere il fuoco con ramoscelli secchi o fidarsi delle indicazioni delle persone incontrate per imboccare la strada giusta.

Ma era chiaro che un costoso GPS non evitava di ritrovarsi senz’acqua. Eravamo stravolti. L’ultima ora l’avevamo passata alternando venti metri in bici e venti metri a spingere. Ma la fatica fisica non era tanto pesante come quella mentale. Ancora 95 km alla meta e sembrava ovvio che i chilometri non erano più la giusta unità di misura per calcolare la distanza dalla meta. Tutto mi sembrava paradossale: quel deserto, la sua infinitezza, noi sui nostri bicicli carichi di cose inutili e senz’acqua; l’apparire onirico delle due figure e l’idea che una tenda beduina, invisibile, potesse essere la soluzione al nostro problema! E non c’era un briciolo di esotismo che potesse consolarmi in quel momento. La sensazione di pura assurdità prevaleva insistente nella mia testa. Guardavo Yoshi impassibile riordinare le sue borse.

Mi chiedevo cosa pensasse lui. Se quel tenersi indaffarato nell’attesa fosse una reazione conscia al pericolo o un semplice automatismo. Più che altro per passare il tempo mi informai sul percorso che ci aspettava.

«Acqua?» chiesi al signore facendo un cenno della mano nella direzione in cui dovevamo andare. «20 chilometri. Restaurant» disse lui. Possibile? Pur nell’incertezza riguadagnai fiducia. Dopo un paio d’ore mi svegliò il rumore di un motore. Tobias scese da un quattro per quattro, l’uomo e il bambino salirono sul veicolo e la macchina scomparve in direzione di Choum. Non ebbi nemmeno la forza di chiedere a Tobi come avesse trovato la tenda. Presi subito le bottiglie d’acqua, ci misi le pillole disinfettanti, e le sistemai al sole. Una e mezzo.

Riprendemmo il cammino, la sabbia si faceva sempre più impervia. Cercavo di leggere il suolo per riconoscere le parti in cui era meno profonda e passarci sopra senza dover scendere e spingere. La pista non era altro che una manciata di tracce di automobili sul terreno. Il paesaggio continuava elegante e indisturbato. Un branco di muli selvatici ci passò a fianco: una striscia nera correva lungo il loro dorso ed un’altra gli decorava il collo, come se qualcuno avesse dipinto sul loro corpo una croce. Finalmente arrivammo ad un insediamento di quattro case di paglia con l’armatura in ferro attorno ad un pozzo. Un uomo dal classico vestito blu vaporoso e tre bambini ci vennero incontro. «Restaurant?» disse Yoshi guardandomi con uno sguardo che copriva una gamma possibile di sentimenti che andavano dall’ironico al preoccupato; poi in mancanza di una mia risposta rise e si coprì la bocca con la mano.

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