Sabato 20 Aprile 2024 - Anno XXII

Un treno nel deserto africano

foto-Emesik

Un viaggio “lento” in bicicletta dalla Spagna al Mali. A compierlo una giovane coppia che si mette in cammino con la voglia di toccare con mano l’Africa più vera. Per 5 mesi e più di 6.000 chilometri di pedalate, Marianita e Tobias si confrontano con paesaggi ed esperienze di vita. Mondointasca vi propone uno dei capitoli di “Lentamente l’Africa”, Ediesse Editore

Il treno più lungo del mondo nel deserto mauritano
Il treno più lungo del mondo nel deserto mauritano

Nouadhibou. Un discreto gruppo di persone sparse tra la sabbia e le dune lungo le rotaie aspettava il treno in silenzio. Sabbia, ovunque sabbia. Anche la stazione, come del resto tutta la penisola sulla quale la città è costruita, era immersa nella sabbia. Faceva caldo. Un ragazzo vendeva occhiali da sole che teneva tra le mani disposti in una complicatissima struttura che gli arrivava quasi alla punta del naso. Le donne si accomodavano per terra su pesanti valigie in attesa dell’arrivo del treno. Dall’altra parte delle rotaie alcuni uomini sparsi, rannicchiati sulle dune, aspettavano avvolti nei loro panni azzurro cielo. La stazione era stretta tra il mare e i campi minati che cominciavano subito a nord in direzione del Sahara Occidentale. Il bar era chiuso, il capo-stazione in vacanza.

Sul treno minerario verso Choum, Mauritania. Foto di Marianita Palumbo e Tobias Mohn
Sul treno minerario verso Choum, Mauritania. Foto di Marianita Palumbo e Tobias Mohn

Sembrava impensabile che un treno potesse veramente passare da lì. Eppure tutti aspettavano tra incertezza e serenità, come in una qualsiasi stazione di un paesino di provincia nel caldo di una domenica d’agosto a mezzogiorno. Avevamo sentito molto parlare di lui, di un giapponese che stava attraversando il deserto qualche chilometro prima di noi e non potemmo evitare di essere un po’ sorpresi dalla sua inespressività quando lo salutammo come un ospite atteso a lungo, ricoprendolo di domande. Era arrivato insabbiato e con gli occhi piccoli nascosti dietro gli occhiali sporchi e le guance arrossate dal vento mentre noi chiacchieravamo con una famiglia di francesi nella corte interna dell’hotel di Nouadhibou. Yoshi aveva scaricato le borse, steso per terra il suo materassino e si era avvolto nella coperta termica senza dire una parola.

Se per caso incrociava lo sguardo di qualcuno in un momento di sfaccendatezza, abbassava leggermente la testa e si inventava una qualsiasi attività per svincolare lo sguardo. Quando ci disse che voleva prendere il treno per Chum, fu chiaro che avremmo continuato insieme per un pezzo di strada. Almeno fino ad Atar, pensai. Forse saremmo arrivati insieme a Nouakchot se per caso avessimo previsto di proseguire allo stesso tempo. Non potevo immaginare in quel momento che avremmo attraversato Mauritania, Senegal e Guinea insieme. Parlava a mala pena inglese, e nessun’altra lingua utile in quella parte del mondo. Ma intorno ad un obiettivo comune si crea un legame particolare che aiuta a costruire un ponte al di là delle differenze di lingua e abitudini.

Il fatto di non aver mai incontrato prima quella persona finisce per essere un dettaglio assolutamente irrilevante. Il treno arrivò assordante e in un secondo fu assalito dai viaggiatori che si affollarono alle due entrate dell’unico vagone passeggeri. Il resto del treno era vuoto, e assieme ad altri locali, abituati a sfruttare il passaggio del treno per andare a est senza pagare il biglietto, saltammo dentro uno dei vagoni merce. Sembrava di stare in un container scoperchiato dal quale riuscivamo appena ad affacciarci. Uno strato di polvere nera copriva i vagoni arrugginiti. Con noi una famiglia di mauritani. Ci stringemmo addosso giacca a vento e sciarpa: dicevano che ci sarebbe stata molta polvere lì fuori, ma per le bici dentro non c’era posto. Avevamo lasciato i bagagli a due back-packers bavaresi che assieme a Yoshi si sistemarono nella carrozza viaggiatori occupata dai minatori o dalle loro famiglie.

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Un treno nel deserto africano

Quando il treno andava in senso inverso, i duecentocinquanta-quattro vagoni trasportavano i minerali ferrosi estratti a Zouerat, una delle più grandi miniere di ferro attive al mondo, dal centro del paese verso la costa. Dieci minuti dopo, i tre chilometri di vagoni che compongono il treno più pesante del mondo, si misero in moto. Una polvere rossa cominciò subito ad annidarsi nelle sottili rughe disegnate dal sole sulla nostra fronte. Di tanto in tanto dei volti incappucciati si affacciavano dagli altri vagoni merce. Vicino a noi un uomo guardava lontano. Doveva avere la nostra età.

Maglietta rossa, occhiali da sole. Il suo collo muscoloso, i suoi capelli rasati, le sue mani rugose: tutto era già ricoperto da un sottile strato di polvere. A passo d’uomo, il mostro d’acciaio si muoveva attraverso il deserto. Vagone dopo vagone, il treno veniva percosso da un contraccolpo, come un corpo impossessato gradualmente, come un rettile colpito alla testa, si dimenava e poi si assestava. Ci allontanammo dalla città e dai suoi sobborghi. Affacciati al vagone merci osservavamo il paesaggio. Baracche improvvisate fatte di legno, cartone e lamiera arrugginita costruite sulla sabbia bianca e sottilissima sfilavano davanti ai nostri occhi semichiusi. Un gruppo di bambini rincorse il treno per un pezzo, i più giovani salutavano, i più adulti gettavano pietre grandi come pugni chiusi. Senza rabbia, senza motivo. Un gesto automatico. Le teste dei viaggiatori si abbassarono. Bum bum!

Le pietre si frantumarono contro il metallo già ammaccato del vagone. Quando il treno accelerava, il ferro gemeva di fronte, dietro, sotto di noi. Uno scompartimento barcollava minaccioso qualche vagone più in là. Sarebbe sopravvissuto alle dodici ore di viaggio e ai cinquecento chilometri che dovevamo percorrere? Qualcosa doveva essersi rotto lì dentro. Gli uomini con le sciarpe nere strette intorno ai volti si sedettero di nuovo indifferenti a quel suono. Le donne scomparvero sotto spesse coperte colorate. Un uomo, solo, nel suo maglione giallo visibile anche al buio, si rannicchiò in un angolo. Bum! Le lenti nere dei suoi occhiali ci fissavano. Dondolava al movimento del treno. Gli altri restarono distesi, immobili, nascosti sotto l’enorme coperta. Nel vagone di fronte una figura solitaria. Una sciarpa colorata ben stretta sul viso. La veste larga e nera in preda al vento, sotto cui stava dritto, immobile il suo corpo magro. Bum! Un altro colpo ci raggiunse da lontano preceduto da un suono come quello di un caccia in avvicinamento, vagone contro vagone. Bum!

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Mauritania strada fra Nouakchott ed Alegeri
Mauritania strada fra Nouakchott ed Alegeri

Non appena la locomotiva cambiava velocità, ogni vagone si scontrava con quello che lo precedeva con una forza sempre più potente. Bum! Sobbalzammo come colpiti da un martello mosso da una mano di gigante. I cappotti e le sciarpe dei nostri compagni di viaggio si gonfiarono m una breve fiamma colorata. Un veloce gioco di fuoco. E di nuovo rimanemmo soli. Sembrava impossibile essere li, nel mezzo del deserto, eppure i chilometri pesavano sulle nostre spalle. Sembrava impensabile ritrovarsi in quel treno solitario ed infinito che per molti dei passeggeri non era che un tragitto banale, quotidiano. Le rotaie continuavano a cigolare. Procedevamo di nuovo a passo d’uomo. Bum!

Il sole scomparve di scena piano piano mentre il vento serpente di metallo si allungava fino alla fine dell’orizzonte. Era più lungo di quanto fosse in grado di abbracciare il nostro sguardo. Si piegava e si contorceva tra le dune. Come una collana di grosse perle dimenticata su una spiaggia, scivolava elegante adattandosi alle sinuosità del paesaggio. Di nuovo il millepiedi sofferente accelerò e si immerse in un tunnel di polvere che lo avvolse completamente. Le sue zampe, le migliaia di ruote che trasportavano ferro grezzo giorno dopo giorno fuori dal deserto, furono inghiottite da una coltre spessa. Il sole calava, la sabbia bianca si tingeva di rosso e il deserto rivelava i suoi motivi nascosti: linee, mille volte ripetute, disegnate dal vento sulla sabbia. Impronte.

I cespugli incolori proiettavano strane ombre. Il sole si infiammava furioso e la sua luce si frantumava mille volte nella polvere. Di nuovo dune. Bum! Il vento, scrittore instancabile, subito cancellava ciò che aveva appena scritto. Un gioco eterno, senza che mai nulla si ripetesse veramente. Perduta nel nulla, la nuova strada per Nouakchott seguiva la ferrovia. Avrebbe girato a destra da qualche parte, mentre le rotaie continuavano verso est, verso il cuore del deserto, sempre lungo la frontiera minata che separa la Mauritania dal Sahara Occidentale. Cominciava a fare freddo. Bum!

Un treno nel deserto africano

La figura in nero era ancora lì, guardava le altre teste incappucciate, passeggeri ciechi sopra la corazza di un enorme sauro. Di tanto in tanto un velo svolazzava, un sacchetto di plastica si muoveva in balia del vento fino ad incastrarsi ad un cespuglio già lontanissimo. Le teste scomparivano e riemergevano dai vagoni. Si gelava, il cielo era velato di nuvole vestite di rosso. Un piccolo insediamento dormiva sotto alberi di acacia: cubi d’argilla, cani randagi, pecore. Accanto a noi il gruppo si strinse sotto la grande coperta. Tobi ed io ce ne stavamo in disparte. Le nuvole di polvere si facevano sempre più spesse; anche la figura in nero a pochi metri da noi scomparve nella nebbia.

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La sabbia picchiettava sulle giacche a vento. Quasi impercettibile un uomo cantava contro vento. Un altro insediamento. Steccati, muri di terra, baracche. Improvvisamente, come se seguissero un comando, tutti gli uomini si alzarono, pulirono un pezzo di suolo e ciascuno posizionò una manciata di sabbia di fronte a sé. Strofinarono la sabbia tra le mani, si inchinarono, si alzarono. E poi ancora si inchinarono e si alzarono. Finita la preghiera della sera, tutti tornarono ai loro posti, sotto le coperte o avvolti in molti giri di sciarpa. In questa oscurità polverosa rimanemmo soli assieme alla figura in nero che appariva e scompariva come appostata sulla prua di una scialuppa borbottante ed arrugginita attraverso l’oceano in una notte di nebbia. Solo poche luci all’orizzonte ed il pianto di un bambino distoglievano dalla sensazione che il treno stesse solo scomparendo da qualche parte nel nulla.

Ci girammo e rigirammo nel sacco a pelo, alla ricerca, come gli altri passeggeri, del nostro piccolo universo fatto di oscurità e pensiero. Dopo un tempo indeterminato ci svegliammo che il cielo era coperto di nuvole, non d’acqua ma di stelle. Il treno rantolava attraverso il deserto. Terra e cielo formavano due perfette corrispondenti metà. La sottile differenza tra il nero del cielo e il profondo grigio del deserto, descriveva una linea circolare intorno a noi. Quando ci svegliammo di nuovo, la luna era alta, racchiusa in un semicerchio perfetto. Era un paesaggio ipnotico simile al sogno per indefinitezza e assurdità. Come panna, bianche nuvole coprivano a tratti il cielo nero. Il deserto se ne stava lì sotto una luce metallica, argentea.

Choum foto Bertramz
Choum foto Bertramz

La luna restituì agli scarni cespugli la loro ombra. Rocce strane, piramidi di pietre, colline, che il vento aveva intagliato nel deserto, interrompevano la linea retta dell’orizzonte. Cielo e terra ed in mezzo il treno quasi fosse un pianeta la cui traiettoria percorreva l’asse centrale del sistema composto dal sole, dalla luna e dal treno, i tre unici elementi in movimento nel paesaggio. Il treno insisteva a disegnare la sua traiettoria in modo invariato. Durante tutto il percorso si fermò solo una volta. Mentre Tobi ed io ci risistemavamo dentro ai sacchi a pelo, i bagagli venivano gettati fuori dagli scompartimenti. Figure incappucciate scesero. Nessuno salì. Ci addormentammo di nuovo. In un dormiveglia magico proseguimmo il nostro viaggio verso il cuore del Sahara. Il Marocco era sempre più lontano. Le sue montagne, il suo mare, Tangeri, Fès, Marrakech sembravano appartenere ad un altro pianeta. «Choum!» qualcuno urlò scuotendoci. «Choum!».

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