Giovedì 9 Maggio 2024 - Anno XXII

Pedalando per le Aran

Un viaggio in auto e zaino in spalla alla scoperta dell’Irlanda. Quattro amici che tra pub e panorami meravigliosi, musica e baci rubati, chiacchiere con gli sconosciuti e amori fugaci riscoprono il piacere dello stare insieme. Questa settimana vi proponiamo un brano tratto dal libro di Francesco Memoli “Dal verde chiaro al verde scuro – Le conseguenze dell’Irlanda”, Edizioni Miele

Pedalando per le Aran

La strada scorre liscia all’inizio. Davide tira fuori i suoi trascorsi da ciclista e marcia solido e regolare. Anche Alessandro ha nel curriculum tante domeniche in bicicletta, e tiene il passo con fluidità.

L’andatura mia e di Danilo tradisce invece da subito la mancanza di abitudine al sellino: procediamo ancora senza fatica, ma a strappi e in maniera irregolare.

Per il momento, però, eroici come non mai, la testa bassa ad affrontare il vento, maciniamo la strada fingendo sprezzo per la fatica, alla ricerca delle nostre mete. Lo zaino infilato sotto il k-way, ci troviamo in un niente con le gambe fradice di pioggia, e i jeans che fanno attrito sulla pelle rendono più difficoltosa la marcia.

Percorriamo le strade strette, trafficate solo dall’auto di qualche residente e dai pulmini turistici. A turno, chi sta davanti si volta per guardare se dietro ci sono tutti. I muretti a secco di pietre sovrapposte che delimitano il terreno in forme circolari scorrono veloci al ritmo delle nostre pedalate.

Non credevo, ma la fatica si fa sentire quasi subito. I quadricipiti indolenziti e addormentati dall’inattività si irrigidiscono dopo poche centinaia di metri, e subito mi trovo a fare i conti con i miei limiti. Avrei voluto una giornata di sole, oggi, e invece la pioggia accentua il mio scoramento. A tratti mi sento… come dire… inadeguato. Mi viene quasi voglia di fare il turista tradizionale. Tornerei indietro a prendere uno degli stramaledetti pulmini, a guardare da dietro a un vetro il paesaggio che scorre, piuttosto che sudare senza capire la fatica, perché la pioggia si mischia al sudore.

Forse non fa per me questa cosa. Forse a volte chiedo troppo a me stesso. E qual è il risultato? Mi innervosisco, perché non so gestire la situazione, perché la fatica obnubila la mia indole avventurosa, perché la stanchezza fisica a volte incombe in maniera troppo massiccia sull’entusiasmo, e lo smorza, e lo rende non sufficiente al proseguimento.

Poi, a tratti, sento le voci dei ragazzi.

«Ma vi rendete conto? ‘Sti deficienti si girano l’isola col pulmino. Ma che sfizio c’è?».

«Infatti» – le parole miste all’affanno – «non si può girare quest’isola senza farti le strade per bene. In pulmino… non esiste proprio».

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Pedalando per le Aran

E piano piano il loro entusiasmo, la loro forza, mi contagiano. Sì, mi sento inadeguato. Sì, sono deluso da me stesso, perché pensavo di reggere meglio. Ma è bello quello che stiamo facendo. Lo so che vi sembrerà esagerato, ma c’è qualcosa di… epico, nel girare quest’isola sotto la pioggia, col vento che ci sferza la faccia, incuranti della fatica, solo con la voglia di andare avanti.

«Raga’, se non ci ammaliamo oggi non ci ammaliamo mai più» grida qualcuno.

E non posso che concordare, già bagnato fradicio come sono, col freddo che entra nelle ossa e il sudore che non ha tempo di adagiarsi sulla pelle che subito viene asciugato dal vento freddo.

Percorriamo l’isola quasi per tutta la sua lunghezza, e ci fermiamo nei pressi del sito chiamato Na Seacht d’Teampheall (The Seven Churches), costituito dai resti di un cimitero e di due chiese, dove subito perdiamo Danilo, catturato da una teoria di croci celtiche e ambientazioni gotiche. Ci aggiriamo silenziosi e rispettosi tra le rovine, consapevoli che solo quella pioggia e quel cielo nero avrebbero potuto rendere il giusto merito all’ambientazione. Mentre scattiamo dalle angolazioni più impensabili, cerchiamo di proteggere le macchine fotografiche dalla pioggia che non smette di cadere.

Dopo alcuni minuti, il nostro lento girovagare viene disturbato dall’arrivo di un carico di turisti, vomitati fuori da una delle navette che fanno servizio sull’isola. Benché cerchiamo di ignorarli, i turisti ci provocano istantanea irritazione. Non so, è come se fossimo certi di avere soltanto noi la giusta chiave per interpretare questi posti. Come se il nugolo di persone sopraggiunte, con la loro chiassosità e le pose stupide accanto ai muretti diroccati per rubare via una foto ricordo, come se non fossero degne di essere lì. Quanto meno, come se non lo fossero come noi.

Noi che questo posto ce lo siamo meritato. Abbiamo pedalato e faticato, per arrivarci, cazzo. Abbiamo girato per l’isola cercando. Abbiamo scelto. Noi abbiamo valutato e, con consapevolezza, abbiamo deciso una direzione. Questi qui, invece, sono saliti su un pulmino, inconsapevoli di quello che stavano per fare. Guidati da un uomo che per mestiere gira l’isola senza neanche guardarsi più attorno, senza più accorgersi delle meraviglie che attraversa. Queste persone sono qui perché è qui che sono state condotte. E stanno rubando la nostra quiete, i nostri spazi, il nostro tempo. E sì, stanno anche rubando le nostre inquadrature fotografiche. Compaiono all’improvviso negli angoli delle nostre semiautomatiche. Rovinano le messe a fuoco passando davanti alle rovine che avevamo deciso di immortalare.

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E poi non si rendono conto che, in fondo, la fotografia è un atto intimo. È l’instaurarsi di un rapporto profondo tra il soggetto e colui che lo immortala. Una fotografia, per essere fatta bene, deve godere di privacy, di silenzio, di rispetto. E invece questi qui sono scesi da un pulmino e hanno cominciato a camminare, pretendendo di immortalare con le loro usa e getta quello che noi sentiamo di aver conquistato con fatica.

Pedalando per le Aran

Esasperati dalla gente, inforchiamo le nostre bici e torniamo verso il centro dell’isola.

Forti dello studio della cartina, ci avviamo verso un ripido sentiero che si inerpica sulla fiancata della collina. Tempo poche centinaia di metri, e il sentiero diventa veramente impervio. Non c’è più asfalto, la ghiaia la fa da padrona, e l’erba selvatica comincia a invadere quella che dovrebbe essere la nostra strada. Man mano che andiamo avanti, la situazione peggiora: il sentiero diventa difficilmente percorribile anche a piedi, figuriamoci in bicicletta. Ma non sia mai detto che smontiamo dal sellino: siamo in bici e dobbiamo pedalare.

Sempre più spesso poggiamo i piedi per terra. Le ruote scivolano sulle pietre lisce e viscide per l’erba bagnata, facendoci sbandare ripetutamente.

Se la strada normale mi ha messo in crisi, sui sentieri sterrati riprendo fiducia in me stesso. Forte della mia spericolatezza e galvanizzato dal fascino della situazione estrema, mi lancio a fare da apripista, alla ricerca dei sentieri migliori. Mi sono sempre sentito molto più a mio agio nei posti dove la mano della natura si sente più di quella dell’uomo, così ora riesco a supplire facilmente alla mancanza di allenamento.

Siamo a metà della collina, e il sentiero sembra non finire mai.

La bici di Davide ha il sellino in panne: si muove e non si mantiene in asse, rendendo praticamente impossibile la guida da seduti. Visto che il ragazzo impreca contro il sellino già da un po’, gli propongo un cambio di bici: nonostante tutto le sue chiappe hanno già sofferto abbastanza.

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Si sa, più breve è la strada, più ripida è la salita. Ma ora come ora non abbiamo tempo né voglia di fermarci e salire con calma. Arriviamo finalmente dall’altra parte dell’isola. Vediamo la strada terminare, e cominciamo a sentire il rumore del mare che batte contro le rocce.

Stremati, affannati, fradici di pioggia e di sudore, lasciamo cadere le biciclette al termine della strada. Facciamo a piedi gli ultimi metri verso il bordo della scogliera con l’orgoglio del miglior Rocky Balboa dopo aver scalato la montagna innevata. Ormai arranchiamo, ma sapete una cosa? Ne è valsa la pena.

Siamo soli quassù. Nessun turista a disturbare il nostro momento. Davanti a noi la roccia cade in verticale, disegnando una linea netta che stacca la terra dal mare e dal cielo. Le onde biancheggiano schiantandosi violente contro la scogliera. Il vento soffia spostandoci facilmente. Strati su strati di roccia hanno creato uno degli spettacoli più belli che ci sia mai capitato di vedere.

Ma non è solo questo. Non è solo la spettacolarità selvaggia del posto a incantarci. Non è solo lo strapiombo sotto di noi a darci la vertigine. È la consapevolezza, e lo so che vi sembrerà esagerato, che noi oggi siamo stati degli eroi.

Immortaliamo i nostri volti e i nostri corpi stanchi, ma carichi dello stesso orgoglio di un pugile che arriva alla quindicesima ripresa (eh.. lo so, vedere Rocky da bambini fa male…).

Scattiamo foto di noi stagliati sul vuoto della scogliera. Ci concediamo un po’ di riposo, seduti con le gambe penzoloni sullo strapiombo. Beviamo avidamente l’acqua che ci è rimasta.

Passiamo così una mezz’ora, fieri di noi stessi e della giornata che siamo riusciti a trascorrere.

Senza più un briciolo di energia, riprendiamo le bici e ci lanciamo in discesa.

 

Per saperne di più sul libro di Francesco Memoli: www.dalverdechiaroalverdescuro.it

(03/05/2013)

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