«I verdi giardini cingono Damasco come l’alone cinge la luna.» Ibnjubair (viaggiatore andaluso, 1184 ca.)
Il centro storico ha sette porte e bisogna viverci altrettanti anni per comprendere la città. Damasco è la città più antica del mondo che sia stata abitata fino a oggi senza interruzioni. Quando un forestiero vi si trattiene a lungo, il fascino spontaneo iniziale lascia via via il posto a un amore profondo per la filigrana culturale di questa vivace metropoli. Si dice che il profeta Maometto si sia rifiutato di entrare a Damasco. Provenendo da sud, raggiunse un sobborgo oggi chiamato Kadam, che in arabo significa «piede», a sottolineare la sacralità del luogo toccato dal piede del profeta.
Da Kadam, Maometto vide la città e i suoi giardini e disse che l’uomo può andare in paradiso soltanto una volta. Lui scelse quello dell’aldilà.
Senza dubbio a Damasco si trovano ristoranti buoni e anche ottimi. Alcuni hanno giardini da sogno o tranquilli dintorni storici. Altri sono moderni e perfettamente organizzati. Ma nemmeno l’atmosfera più curata e più costosa può rimpiazzare il mistero di un’antica cucina damascena.
Molti popoli e culture sono passati per Damasco, lasciando le loro tracce nella lingua, nell’architettura e nelle anime delle persone. Questa varietà si riscontra tuttora nei piatti locali, come vivace testimonianza e appetitosa memoria.
Siamo all’inizio di una strada molto famosa e antichissima, che si chiama semplicemente «via Diritta» e corre da est a ovest. Veniva già chiamata così da Luca negli Atti degli Apostoli: ai tempi di san Paolo caratterizzava l’immagine della città e ancora oggi dà un’impronta particolare alla
città vecchia. Una volta era larga ventisei metri, ma gli intraprendenti commercianti e artigiani si sono allargati sempre di più. Oggi in alcuni punti la strada non supera i dieci metri di larghezza. Ogni volta che, la mattina, un commerciante posa sul marciapiede o sulla carreggiata qualche cassetta di verdura, di frutta o di pistacchi, oppure scatole di legno, non posso fare a meno di ridere: così facendo si appropria della strada di fronte alla sua bottega senza dare nell’occhio, ma è lampante che questa stessa procedura è stata messa in atto da tutti i commercianti e artigiani lungo la strada per qualche centinaio di migliaia di mattine.
L’impronta greca che ha plasmato questa città
è tuttora evidente. Il centro storico è il risultato di una planimetria a griglia, che risale all’urbanista Ippodamo di Mileto. Tuttavia la sua inconfondibile forma ovale gli dona un fascino incantevole. Giustamente, molti paragonano il centro storico di Damasco a un aquilone, come quelli con cui giocano i bambini. Fu dalla Porta Orientale, in arabo Bab Sharqi, che nel 635 gli arabi presero d’assalto una delle più belle città dell’epoca e s’innamorarono della sua immagine. I guerrieri cresciuti nel deserto e da sempre tormentati dalla sete si trovarono di fronte il paradiso terrestre: una città di giardini e soprattutto ricca di acqua ottima e abbondante.
Per quasi novant’anni Damasco fu la capitale di un impero mondiale. Per buonsenso e realismo, gli arabi tollerarono le minoranze cristiane ed ebree del posto, che in prevalenza si guadagnavano da vivere come capaci artigiani. Da nomadi del deserto quali erano, gli arabi non avevano una particolare propensione per l’artigianato. Poiché non intendevano depredare quella terra, ma al contrario trasformarla in un potente regno, avevano bisogno di esperti artigiani, e quindi evitarono di scacciarli; tuttavia cristiani ed ebrei dovevano versare un’elevata tassa pro capite. Dal canto loro, i cristiani e gli ebrei consideravano gli arabi musulmani gli artefici della loro liberazione dagli odiati romani, il che favoriva ulteriormente l’atteggiamento benevolo dei conquistatori. Così questi ultimi, pur imponendo limitazioni dei diritti politici, lasciarono vivere le minoranze religiose che, anziché darsi alla fuga, ben presto divennero un elemento irrinunciabile della cultura araba.
Questa condizione delle minoranze è tuttora evidente a Damasco. In nessun’altra città gli esponenti di tutte le culture e religioni sono sopravvissuti a quindici movimentati secoli di storia. Ciò ha a che fare anche con la città stessa e con il suo clima conciliante. In particolare, è noto e invidiato il carattere damasceno, un insieme di estremo fascino e circospezione. Il primo califfo degli Omeiadi, Muawiya, diceva: «Non sfodero la spada quando basta la frusta e nemmeno questa se la mia lingua è sufficiente». L’aveva sicuramente imparato dai damasceni. Fu a lungo governatore della metropoli, prima di assurgere al rango di califfo e di fondatore di una dinastia. Sua moglie, la madre del suo erede al trono, era cristiana, come il suo poeta di corte, al Achtal, e il suo ministro delle finanze, Mansur bin Sergun. Quest’ultimo era il padre di colui che in seguito sarebbe diventato un santo, poeta e teologo cristiano famoso in tutto il mondo, Giovanni Damasceno. Ma ritorniamo alla via Diritta.
Il quartiere della Porta Orientale possiede molti angolini graziosi. Se si ha la clemenza di ignorare gli orrendi cartelli che incitano i turisti all’acquisto di souvenir, si può godere la quiete dei modesti vicoli e le case meravigliosamente conservate. Qua e là, anche nella città vecchia si può constatare l’orribile operato della modernità – il suo spaventoso cemento, il ferro arrugginito – ma gran parte del centro storico è stato ben conservato. Accanto ai negozi di generi alimentari ed elettrodomestici si trovano ancora curiosi artigiani, non di rado in minuscole botteghe: per esempio un salone da parrucchiere che dall’esterno appare piuttosto medievale, ma ospita un artista dell’acconciatura di livello internazionale. Qualche passo più in là s’incontra un uomo che trascorre ore e ore chino su un tappeto. Taciturno e modesto, esercita una delle arti più nobili: rammendare e restaurare tappeti con complicati disegni. Un’arte molto più difficile della stessa tessitura dei tappeti. Una volta, a casa nostra, una scintilla del forno a legna fece un buco nel tappeto persiano.
Il foro era grande quasi quanto il palmo di una mano, e nostra madre pensò che a nostro padre sarebbe venuto un infarto alla vista di quel danno devastante. Di tutte le cose che c’erano in casa, quel tappeto era il suo preferito. Aveva sempre amato sedersi a terra. Quando nostra madre gli mostrò quel buco nero, lui annuì e disse: «Grazie a Dio ti sei accorta in tempo del principio d’incendio. Per il tappeto non c’è problema, lo sistema Ali». Ali ci mise una settimana. Poi il suo garzone riportò il tappeto. Era impossibile individuare la parte danneggiata. I restauratori di tappeti lavorano con filati di lana che devono avere all’incirca la stessa età dell’oggetto rovinato. Ogni anno acquistano filati di lana appena tinti e li conservano, in modo che i colori subiscano le stesse alterazioni a opera degli agenti atmosferici cui sono esposti anche i tappeti.
Passata la Porta Orientale, se si prende la prima via a destra, ci si ritrova sulle esatte coordinate di un evento storico che poteva verificarsi soltanto a Damasco: è qui che Saulo divenne Paolo. Qui è situata la storica cappella dedicata all’uomo che, secondo la leggenda, guarì Saulo dalla cecità che lo aveva colpito sulla via di Damasco. Quell’uomo si chiamava Anania, e da lui prende il nome la via. Convertito al cristianesimo, Paolo dovette nascondersi dai suoi persecutori e poi, nella notte, percorrere tutto il vicolo Abbara, la nostra strada, scavalcare le mura e fuggire. Nel punto in cui Paolo fu calato dalle mura in un cesto oggi sorge una cappella. Ma di questo riparleremo in seguito, quando giungeremo nel nostro vicolo.
Ora ritorniamo alla via Anania. Non lontano dalla cappella sotterranea del santo Anania vive zia Salime, una lontana cugina di nostra madre. Se qualcuno mi chiedesse se esistano persone che sanno vivere, citerei senza esitazioni zia Salime e zio Farid. Forse è un caso (o forse no) che la nostra passeggiata cominci da zia Salime, maestra nell’arte di vivere, e si concluda con uno dei migliori padroni di casa che io conosca, zio Farid, che abita da tutt’altra parte, nel quartiere Qaimarije, vicino alla moschea degli Omeiadi. Lui è il più grande spettacolo pirotecnico dell’ospitalità di tutta Damasco, mentre lei è l’allegria in persona. Zio Farid ha un carattere forte, comunque ha vita facile, stando al fianco della donna che idolatrava già da bambino e che ancora oggi adora lui, dopo quarant’anni di matrimonio. Zia Salime, invece, ha sempre avuto sfortuna.
Chi la sente ridere, però, pensa che sia stata felice fin dalla culla. La realtà è ben diversa: dopo un anno di matrimonio il marito fuggì con la migliore amica della zia alla volta del Canada, lasciandola sola a Damasco, nel luogo della sua sconfitta. Poi la sua casa fu divorata fino alle fondamenta da un incendio, scoppiato mentre lei era al cinema con un’amica. «Pensa un po’ come sono fortunata», mi disse un giorno, dopo l’incidente. «Il capo dei vigili del fuoco ha detto che se fossi stata in casa non avrei avuto nessuna possibilità di sopravvivere. Grazie a Dio Alia mi ha invitato al cinema. Il film è stato bello.» E rise.
Nostra madre diceva che Salime cadeva sempre in piedi. Ma non è solo il fatto di rimettersi in piedi alla svelta, è la sua incantevole risata che ci ha contagiato tutti e che l’ha resa una delle persone più amate del quartiere.
Quasi tutte le domeniche, soprattutto in primavera e in estate, zia Salime invitava alcune donne a casa sua e preparava con loro la più famosa insalata damascena, il tabbuleh. Io andavo da lei almeno cinque o sei volte all’anno. Ogni volta era una festa per il palato, gli occhi, le orecchie, i muscoli della risata e il cuore. Zia Salime era la, direttrice d’orchestra e noi tagliuzzavamo, spremevamo, mescolavamo. Lei metteva tutto quanto in una portentosa insalata e poi rimanevamo da lei per ore, a mangiare, ridere e raccontare. Zia Salime diceva che il tabbuleh è l’unica insalata che non viene mai servita in occasioni tristi. Forse i suoi colori vivaci e gli aromi delle erbe impongono un’allegria che non si addice ai lutti. Si potrebbe ridere delle parole di mia zia, ma in effetti in cinquant’anni non mi è mai capitato di vedere famiglie in lutto preparare il tabbuleh, né per sé, né per gli ospiti. Il tabbuleh è un’ insalata di prezzemolo. Gli altri sono soltanto ingredienti aggiuntivi. In questo piatto, quindi il prezzemolo non è soltanto un aroma, ma ne costituisce l’elemento principale.
Damasco: Tabbuleh, l’insalata di prezzemolo
Ingredienti
400 g di bulgur macinato fine
2 grossi mazzi di prezzemolo liscio (ca. 600 g)
1 kg di pomodori ramati
2 peperoni rossi e 2 peperoni verdi
1 cetriolo
4 carote
1 mazzo di cipolline fresche
1 mazzo di ravanelli
2 spicchi d’aglio
4 limoni piccoli o 2 grandi
1 cucchiaio di menta piperita essiccata (preferibilmente quella mediterranea, un po’ amara, che si chiama na’na’). In estate è ancora meglio
1 mazzetto di menta piperita fresca, più 1 mazzetto di basilico e una manciata di foglie di timo fresche
sale e pepe
250 ml (sì, proprio così tanto!) di olio d’oliva
Preparazione
Lavare il bulgur, immergerlo in acqua fredda e lasciarlo a mollo per 15 minuti. Privare il prezzemolo dei gambi e sminuzzare finemente le foglie con un coltello. Lavare le verdure, pulirle e tagliarle a dadini minuscoli. Mettere tutto in una grande insalatiera, insieme al prezzemolo. Aggiungere l’aglio, dopo averlo sbucciato e schiacciato, poi il succo dei limoni e il bulgur.
Quindi aggiungere la menta piperita, salare, pepare e mescolare il tutto. Infine condire l’insalata con l’olio e mescolarla. Lasciare riposare l’insalata per dieci minuti, poi mescolarla per bene un’altra volta.
* Il bulgur dura a lungo se lo si conserva all’asciutto, in sacchetti di stoffa ben chiusi. La stoffa lo fa «respirare», per usare un’espressione della zia Salime.
Zia Salime ha sempre servito il tabbuleh in scodelle tonde, guarnite con foglie d’insalata fresca.
È un piatto delizioso e nutriente, e si accompagna con qualsiasi bevanda.
Il tabbuleh è buono soltanto quando è fresco.
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