Mercoledì 24 Aprile 2024 - Anno XXII

Cabo Verde, nostalgia e “morabeza”

Il termine esprime un indefinito, struggente, passionale senso di nostalgica appartenenza alle proprie radici. Si assapora qui, nell’arcipelago a largo delle coste senegalesi, frammenti di terra emersa nell’Oceano Atlantico. Questa settimana vi proponiamo un estratto dell’ultimo libro di Marco Nundini, “Isole Erranti”, edito per l’etichetta indipendente ilFilografo

L'isola di Fogo
L’isola di Fogo

Anche João Baptista sta tornando a casa. È uno dei tanti emigranti che con le proprie rimesse ha reso un poco più ricco l’arcipelago. Per tutta la durata del volo mi ha raccontato del suo paese. Non sono ancora atterrato all’aeroporto internazionale Amilcar Cabral che già ho materiale per scrivere un pezzo. João Baptista ha le risposte che cerco. Capo Verde, ma sarebbe meglio appellare il paese con il più esotico e nostrano “Cabo Verde”, è un luogo assai particolare. Lasciate stare, almeno per un attimo, il concetto scolastico d’entità geografica. Chiudete gli occhi. Fate uscire tutto l’aborigeno che è in voi e pensate intensamente a questo luogo come a qualcosa di più di un puzzle d’infinite spiagge, rocce laviche, verdi canyon, cieli azzurri ed antiche fortezze.

Fate vibrare il vostro pensiero sino a sentire l’odore di salsedine nelle narici, il ritmico infrangersi dei flutti sulla battigia, il generoso sole tropicale massaggiare con vigore la pelle. Se l’esperimento è riuscito allora siete pronti per pensare a Capo Verde come ad un’entità vivente, con una sua anima, un suo carattere, un modo d’essere e di porsi con chi la avvicina.

Perché è questo in realtà ciò che l’arcipelago africano può offrirvi: un rapporto di sincera amicizia, da costruire giorno dopo giorno, sulla base dei reciproci interessi, delle simpatie, del rispetto, della voglia di fare o di oziare.

Su queste isole, frammenti di terra emersa nell’Oceano Atlantico, si può spendere la giornata standosene sdraiati come lucertole al sole, cullati dalle melodiche note di una morna. Si può flirtare con Eolo facendosi gonfiare la vela del windsurf di carezzevole brezza. Si possono raccogliere conchiglie, cavalcare le dune del deserto, camminare per ore tra le nere ceneri di un vulcano, scalare alte montagne, pedalare su tranquilli viottoli di campagna.

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Cabo Verde, nostalgia e "morabeza"

A Capo Verde ci si può innamorare. Capita spesso da queste parti. Incrociare sguardi e sorrisi può essere piacevolmente fatale se il proprio cuore è libero. Libera come sa esserlo l’anima creola dei capoverdiani, quella che si mostra attraverso visi dolci e sorridenti, frutto di secolari fusioni etniche, attraverso l’amore per la musica e la danza, per il gusto di condividere i piccoli piaceri della quotidianità.

L’arcipelago è Africa, Europa e Caraibi al tempo stesso, è passione e voglia di vivere, nostalgia e felicità. Chi approda su queste isole è un esploratore e, come tale, deve saper rinunciare all’integralismo del “tutto organizzato”, per lasciare spazio al tempo ed alle emozioni. A quel senso di quieta armonia che a Capo Verde si esprime con una sola intraducibile parola, la risposta più eloquente alle mie domande: morabeza.

Il termine esprime un indefinito, struggente, passionale, indelebile senso di nostalgica appartenenza alle proprie radici.

João Baptista sta tornando a Fogo. Un cono di solida pietra. Un possente gigante che emerge dai flutti e s’innalza a lacerare, impietoso, le nubi di bianca bambagia che corrono sopra l’Atlantico e s’accorgono appena di quella manciata di isole gettate come coriandoli in pasto alla corrente. Così dovevano vedere Fogo i primi coloni di Ribeira Grande, dall’alto della Fortaleza Real de São Filipe, roccaforte difensiva del più grande e florido mercato degli schiavi che, nell’isola di Santiago, trovava il suo nodo nevralgico. Così dovevano vedere Fogo, come un demone tuonante, i giovani africani strappati alla loro terra per essere spediti, come bestie da soma, nelle colonie del Nuovo Mondo.

Cabo Verde, nostalgia e "morabeza"

Il concetto di schiavo nelle società dell’Africa tribale era paragonabile ad una pena, da scontare nel tempo, per un reato commesso o come tributo per una guerra perduta. Chi era privato della libertà manteneva comunque il diritto alla proprietà, alla famiglia, alla dignità personale, oltre che la possibilità di riscattarsi e tornare ad essere un uomo libero. La situazione precipita con l’arrivo dei mussulmani che, nei confronti dei nemici infedeli, applicano un nuovo concetto di schiavitù perpetua. Non deve dunque stupire che, proprio a “commercianti” islamici si rivolgessero i negrieri europei per approvvigionarsi di schiavi africani.

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L’espansione degli imperi coloniali e la scoperta dell’America diedero grande impulso a tale torbido mercato che in Capo Verde trovava uno dei suoi nodi nevralgici. I coloni europei portavano nel Nuovo Mondo grano, orzo, caffè, canna da zucchero e riso, dando vita a vaste piantagioni per le quali era necessaria una grande quantità di mano d’opera. Le prime compagnie commerciali, come la Compagnia della Baia di Hudson, la Compagnia delle Indie Orientali e quella della Guinea, erano nate per lucrare sul trasporto delle merci da un angolo all’altro del pianeta, allo stesso modo i negrieri operavano in modo triangolare tra Europa, Africa e America, scambiando armi e manufatti di foggia europea con schiavi africani, da smerciare poi nel Nuovo Mondo in cambio di denaro e prodotti agricoli molto richiesti nel Vecchio Continente. Si calcola che nel XVII secolo l’America ispanica importasse tremila “pezzi” all’anno e il Brasile cinquemila.

Per “pezzo” s’intendeva un giovane maschio adulto e spesso tre schiavi malridotti erano calcolati come due soli “pezzi”. Gli storici ipotizzano che, sul finire del Settecento, nelle Americhe e nelle Indie Occidentali furono spediti oltre sei milioni di schiavi, senza contare quelli impiegati nelle piantagioni asiatiche ed africane. Una migrazione via mare senza precedenti e talmente lucrosa che le potenze europee si disputarono il controllo delle fonti di rifornimento di questo vergognoso mercato.

«Noi siamo il prodotto di questa fusione forzata», mi spiega João Baptista, «i nostri lineamenti, la nostra lingua, il creolo, le nostre usanze più antiche, tutto segna il legame con l’oscuro passato.»

(07/02/2014)

 

Per l’acquisto del libro: www.marconundini.it/MNNarrativaIsoleErranti.html

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