“Gustosa” gita oltre Ticino
A ‘sto punto l’accorto lettore avrà afferrato che, dotato di tanta voglia di vere amicizie e di altrettanto forte aficiòn alla degustazione di cibi e bevande, il Nicola non poteva che arruolarsi nella Accademia della Cucina e, dopo breve militanza, da peòn divenire Arconte (ma lui più modestamente e meno ellenicamente si definisce solo delegato) di un distretto milanese di questo Areopago del Palato.
Dopodiché eccomi apparire in scena: el mè amìs organizza una gita oltre Ticino e io, dotato di una sorta di koinè mutuata in quelle terre, vengo arruolato come giornalista, inviato quasi speciale, della spedizione, con licenza di narrare i miei trascorsi novaresi e commentare le abitudini mangerecce indigene.
Polenta, gorgonzola e vini Novaresi
Ma ahimè tanto ambizioso progetto naufragò. Accadde infatti che, giunti all’Azienda Cà Nova in Bogogno, per commentare i vini all’aperitivo (evviva, riquisimo: polenta e gorgonzola e salàm dlà Dùja, mica quegli orridi canapè surgelati degli alberghi milanesi che se la tirano) la bella anfitriona non meno che brava professional, Giada Codecasa, aveva convocato un “loro” giornalista, (almeno) lui, sì, capace professionista, quindi esperto di mangiari e (massime) di vini. Da cui un mio doveroso silenzio, anche perché cosa mai avrei potuto replicare a un signore che tra un bicchiere e l’altro evidenziava nascosti (almeno a me) profumi di pere (ma non ricordo più quali, forse le William), commentava tannini forse un pò decisi, metteva in guardia da retrogusti talvolta troppo arditi e, financo più bravo dell’Ardito Desio, spiattellava i componenti delle terre moreniche calpestate proprio mentre sorseggiavamo il Sizzano, Ghemme e Fara (n.b. siamo pertanto sulle colline tra i laghi Maggiore e d’Orta, poco più a nord, e le risaie della bassa)?
Quando i “giornali” nascevano a “pancia piena”
Mangiare. Tutti magnificavano (e tuttora accade) la Paniscia ma dopo (parecchie) decine di anni – ultimo tentativo pochi mesi fa in un ristorante di Proh, leggasi Prù – sto ancora qui a chiedermi cosa ci troveranno di buono. E’ invece eccelso il Gorgonzola, ma, incazzoso, come peraltro ogni vecchio, coi modernismi non tollero che oggidì si parli di “dolce” e/o “piccante” (il Gorgonzola è il Gorgonzola e cosa c’entro io se l’Invernizzi inventò per i delicati palati delle signorinette quel melenso paraformaggio chiamato Gim?).
Bere. Se si parla di vino mi viene da ridere gustando i nettari proposti al Nicola e ai suoi adepti: “ai miei tempi” (novaresi), salvo qualche buona bottiglia detenuta dai soliti sciur, si beveva (ricordo ancora una mescita in un vicolo a due passi dal Cantòn di Uri, l’Angolo delle Ore) il “Barberato” – e per descriverne le proprietà organolettiche basta il nome –. Né ho vergogna a confessare che un paio di volte aiutai pure un amico vinaio a creare un doc con la methode “catene” (e gli esperti sanno a cosa mi riferisco). Meglio quindi i “Martini Dry” che, giovine redattore, sorseggiavo copiosamente già a metà mattina al caffè Coccia, con l’amico (e conte) Sandro (Rossini di Valgrande), editorpadrone e direttore della “Gazzetta di Novara”. Lì si faceva il giornale, dopodiché si andava a stamparlo alla vicina tipografia Paltrinieri, tre fratelli sotto le cui scrivanie trovavansi sempre posizionati altrettanti fiaschi di vino ‘a consumo’). Tempo un paio di mesi e cominciai a chiedermi se il fegato avrebbe potuto sopportare quella mia peraltro rispettabile vocazione a divenire scriba.
(17/04/2014)