Forse frequento gente mica tanto giusta, resta il fatto che quando mi misi a informare che avevo accettato (e pure con entusiasmo!) l’invito della gentile ed elaborata (nel senso che cura i contatti stampa di “Elabora”, azienda di servizi di Ascoli Piceno) Sonia Marcozzi, ad assistere a una transumanza sui monti Sibillini , qualche pirla mi ha considerato matto. D’altro canto cosa ti aspetti dai milanesi, quando, proprio sotto casa mia, va di gran moda una sorta di pescheria che cucina (ovviamente agli orridi prezzi milanesi, facendo così felici i coglioni che possono poi dolersi della spesa non senza un filino di vanto) pesciolini serviti su minitavolini distanti poco più di un metro dai tubi di scappamento del decibelico traffico di Porta Romana, a non più di tre metri dagli sferraglianti tram N° 16 e 24 (il tutto sotto i curiosi occhi – vediamo cosa mangia ‘sta gente che somiglia al Calindri in un antico spot del Cynar – di chi passa nell’angusto slargo rallegrato dal rumore del sottotransitante metrò N° 3 Comasina–San Donato)?
Elogio della pecora
Ricordi, meritevoli di un sopralluogo. E nel dicembre scorso, partecipante al citato, non bellico ma saporito Corso di Specializzazione sul Tartufo Nero, pensai bene di compiere una sorta di pellegrinaggio alla caserma Clementi, ma, ahimè, la mia mancata West Point, ormai da tempo priva di AUC causa soppressione (fortunatamente del corso, non degli allievi ufficiali), era pure finita sulla cronaca nera perché lì faceva il filo alle soldatesse l’uxoricida caporale Parolisi.
Molto meglio le più miti pecore, ingiustamente penalizzate da quel (guerrafondaio non meno che retorico) “Meglio vivere un giorno da leone che cent’anni da pecora”, come se i re della foresta in busta paga al Circo Togni chissà di quali eroismi danno prova. Eppoi, oltre a invitare quello del “Meglio vivere…” a mungere un leone, gli rammento che una pecora dona all’umanità nutriente carne (che a Pasqua si chiama strage), riscaldante lana e quel latte da cui i meravigliosi pecorini.
Fatiche d’altura e ghiottonerie locali
Quattro (e rotte) ore (quasi) dal mare ai Sibillini, perché l’ecologia non si celebra andando a bere il Bitter al Camparino, bensì scarpinando sotto la pioggia (un paio di scivoloni, ginocchiata su un masso con timori di rotula infranta, pleuritico stato di essudazione dentro un irrespirabile k-way, chiappe infangate). Roba da scalatori proprio come in una tappa del Giro, con tanto di posto di rifornimento (lento pit stop per quattro bicchieri di Vin Cotto), arrivo in salita e trasferimento in albergo. A Montegallo, un hotel, il “Vettore” che a cena pensò bene di riprodurmi (con gli interessi) le calorie smaltite nella scarpinata (Ciauscolo, Salame, Salsiccia di fegato, Coppa, Pecorino, Fagioli al prosciutto, Minestra di Ceci e Castagne, Lasagne al Castrato (!!), Fritto ascolano mediante Olive Agnello e Cremini, Spezzatino d’Agnello, Zuppa inglese più anice della casa per certo non inferiore al, a me caro e altrettanto marchigiano, Mistrà delle sorelle Varnelli).