Mercoledì 30 Ottobre 2024 - Anno XXII

La Milano dei “trani” e delle osterie storiche

Osterie Vecchia-osteria

Sotto la Madonnina sono molti i luoghi che si sono persi per sempre o sono rimasti impressi solo nelle foto d’epoca o in qualche vecchia stampa. Un invito alla scoperta della città tra segreti, misteri e luoghi spariti arriva dalle pagine del libro “Milano perduta e dimenticata” di Marina Moioli, Newton Compton Editori. Abbiamo scelto di proporvi un capitolo, quello dedicato ai “trani” e alle osterie storiche

Osterie e Trani: linguaggio di una Milano che non c’è più

Osterie Vecchia Osteria
Una vecchia Osteria di Milano degli anni ’60

Milano perduta e dimenticata” è il libro di Marina Moioli, Newton Compton Editori, dal quale abbiamo scelto di proporvi un capitolo, quello dedicato ai “trani” e alle osterie storiche.
Fino a qualche decennio fa chi a Milano diceva Trani non pensava alla bella città pugliese famosa per la cattedrale romanica di San Nicola, quanto piuttosto alle mescite di vino che ne hanno preso il nome. I vecchi milanesi usavano infatti il termine trani come sinonimo di bettola, osteria, cantina, ma con una forte venatura plebea. Questo perché il vino di Trani, rosso e corposo, serviva alle case vinicole per “tagliare” il vino prodotto al Nord e dargli una maggiore robustezza alcolica. Da trani derivava anche il termine tranatt, cioè “frequentatore abituale di osterie”. Chi non ricorda la canzone di Giorgio Gaber Trani a gogò? Appartiene al periodo dei primi anni Sessanta del grande cantautore milanese, assieme a La ballata del Cerutti Gino, e descrive in modo ironico ed estremamente veritiero l’atmosfera di quei locali un po’ malfamati e dei loro clienti nella Milano popolare di quegli anni:
«Seconda traversa / a sinistra nel viale / ci sta quel locale / abbastanza per male / che chiamano/ trani a gogò / si passa la sera / scolando barbera / scolando barbera / nel trani a gogò / c’è un vecchio barista /dall’aria un po’ triste / che si gratta in testa / poi serve il caffè / e un toast a me / nel trani a gogò / ci son quattro dischi / due tanghi una polka / un’antica mazurka / due mosci foxtrot / e il twist non c’è / nel trani a gogò / si passa la sera / scolando barbera / nel valpolicella / la vecchia zitella / cerca l’amor / nel trani a gogò».

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Osterie Cover "Milano perduta e dimenticata" di Marina Moioli
“Milano perduta e dimenticata” di Marina Moioli, Newton Compton Editori, pagine 288. Euro 9,90

Se ai tempi del Porta si usava invece il termine boeucc che significa “buca” ed è tuttora il nome di  un antico (e costoso) ristorante del centro, già nel Seicento e nel Settecento esistevano osterie per carrettieri, altre predilette dai patrioti, altre ancora da artisti che si riunivano a conversare intorno alla braserà (“braciere”), tutte tenute d’occhio dalla polizia per le risse che spesso si scatenavano. Nel 1616 un’ordinanza ingiunse a tutti «gli hosti, tavemari, bettolinari e camere locande di questa città, borghi e corpi santi» che i boccali per il vino avessero una capacità stabilita per legge. Nacque così il famoso mezz liter (“mezzo litro”). Una delle osterie storiche più famose è stata certamente la Cassina de’ Pomm (delle mele), una locanda con mulino del Quattrocento sul Naviglio della Martesana che nel Settecento fu osteria frequentata perfino da Giacomo Casanova e da Stendhal (che scrisse: «La Cascina delle Mele è il Bois de Boulogne milanese»). In altre, come l’Osteria dei Tre Re o al Rebecchino, gli avventori andavano per ubriacarsi ma anche per giocare a dadi, all’Osteria del Galletto si riuniva la Compagnia della Teppa. Invece alla Nos (la Noce), fuori del dazio di Porta Ticinese, ritrovo della Scapigliatura, Carlo Porta aveva un suo tavolo fisso. Ogni tipo di boecc (termine toscano che significa “buca” e che testimonia la lunga tradizione di osti di origine toscana tramandati a Milano) aveva una sua precisa funzione, perché all’osteria si facevano affari, si beveva e si cantava, ma si consumavano anche intrighi o si congiurava, si giocava a bocce (alcune rarissime osterie conservano ancora il campo ondulato “alla milanese” dove i leggeri rialzi rendevano più difficile il gioco, dato che la boccia poteva retrocedere o acquistare maggior spinta) e si fondavano movimenti letterari. Nelle osterie ogni sabet sera riuscivano a convivere brave sartine e navigate prostitute, composti ragionieri e ligera abbonati a San Vittore. Tutti insieme a mangiucchiare pescetti fritti, a bere un quai coss de bagnà e ad ascoltare il cantastorie di turno. Fu solo grazie alle atmosfere vagamente surreali delle numerosissime osterie di Milano che potè nascere, lavorare e assurgere a fama di grande artista quell’Enrico Molaschi, più noto come il Barbapedana, il “menestrello divino”, che morì in povertà alla Baggina nel 1911 lasciando in ricordo al vicino di branda la sua unica ricchezza: il cappello a cilindro con cui si esibiva gratis nei trani e che aveva la coda di uno scoiattolo cucita dietro.

Osterie Enzo Jannacci
Enzo Jannacci

Cinquant’anni dopo non fu per merito dei bar ma solo grazie alle osterie frequentate anche da pittori, poeti, scrittori, cantanti e cabarettisti, che poterono affermarsi personaggi come Enzo Jannacci, Cochi e Renato, Giorgio Gaber, Nanni Svampa, I Gufi e tutti gli altri grandi “inventori” della risata amara e surreale. Tra le nebbie dei Navigli primeggiò anche un’osteria in via Ascanio Sforza 27, la Briosca, un locale che risaliva al 1600, rilevato nel 1968 da Luciano Sada, detto “il Pinza”, ma chiuso nel 1973 a causa della speculazione edilizia.
Stessa sorte subì il malfamato Praticello di piazza Belfanti, gestito dal 1886 ai primi anni Settanta dalla famiglia Invemizzi-Fontana. Frequentato anche da due giovanissimi Cochi e Renato, fu il più famoso vivaio di cantastorie milanesi, ma anche il luogo più frequentato dalla “marmaglia” di Porta Ticinese: tutta gente che prima di imparare a camminare aveva impara a tacà lit.

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