La storia di una valigia abbandonata, la mia, comincia così. A Shanghai, l’addio, mercoledì 3 aprile 2013, l’altro ieri, nella stanza 1006 del Grand Central hotel di Shanghai, mi sono separato dalla mia vecchia valigia Samsonite nera, rigida, modello Saturn, con due ruote, una sbarra a molla di guida, comprata a Udine nel settembre del 1980. Dopo 33 anni e un lungo travaglio – un’indecisione durata qualche anno – ho programmato e compiuto l’abbandono. Ho scelto di usarla per il suo ultimo viaggio con destinazione Shanghai, dove sapevo che le avrei trovato una sostituta moderna e funzionale a poco prezzo. Così è stato.
La mattina della partenza ho controllato che fosse completamente vuota, salvo la chiave delle due serrature e un nastro di tela grigia che usavo per fasciarla all’esterno, ormai logoro, recante il marchio dell’Hilton di Hong Kong, un vecchio hotel di lusso demolito perché con i suoi 20 piani era troppo basso; l’ho fotografata da varie angolature, poi l’ho deposta vicino al mobile del televisore, di fronte al letto, e l’ho salutata.
La mia valigia ‘rubbish’, spazzatura
Quando sono sceso, elaborando il mio piccolo lutto, al banco in cui stavo pagando il conto è arrivata una telefonata e l’impiegato mi ha chiesto. “Ha tutti i bagagli con sé?”. Sì, ho risposto con naturalezza, guardando i miei due colli, la nuova valigia e la borsa a mano. “Ma c’è una valigia in camera – ha spiegato il giovane -: allora è rubbish, spazzatura?”. Ho annuito, ma quella parola, rubbish, spazzatura, usata per la mia Samsonite del 1980, mi ha aperto una ferita.
Avevo sperato che l’abbandono in un albergo di un Paese in cui c’è ancora tanta povertà potesse assegnarle una nuova vita, non condannarla alla discarica; che un cameriere, o un idraulico, o un qualunque inserviente potesse appropriarsene, legittimamente, e farla diventare sua, usarla ancora. Invece l’indifferenza di quel “rubbish” mi è sembrata la sentenza più crudele.
“Panta rei” anche per le valigie
“Panta rei”, anche per le valigie – Perché l’ho abbandonata? Soffriva, semplicemente, più che di vecchiaia, di obsolescenza. Aveva una misura media, ormai insufficiente per tanti viaggi. Quando l’ho comperata era grande, poi si è rimpicciolita nel tempo. O meglio: negli anni le necessità sono aumentate per tutti, e i bagagli hanno dovuto prenderne atto, diventando più capienti. Possiedo ancora la valigia con la quale i nonni fecero il “gran tour” in Italia nel 1936: in cuoio, a soffietto, con gli angoli rinforzati e tracce di etichette d’albergo. Allora doveva essere un bagaglio ampio, da famiglia.
Oggi fa sorridere, basterebbe per pochi giorni. Quindi la taglia della mia Samsonite da grande era diventata media perché le era cambiato il mondo intorno. Per i soggiorni più prolungati (o per le mete che promettono maggiori acquisti) ormai da anni possiedo un’altra valigia, più grande, azzurra, comoda, che ho visto costruire nella fabbrica Delsey a Parigi dove mi è stata regalata, ma che non ho mai amato.
La Samsonite invece sì, l’ho amata, ha fatto parte di me, mi ha accompagnato, seguito, servito, ha condiviso la mia intimità di viaggiatore. Poi, aveva due ruote, mentre ormai le valige ne hanno quattro: sono più stabili, più pratiche, scivolano via meglio, non fanno maledire la forza di gravità.
Storia di una valigia
La Samsonite aveva una barra da impugnare per spingerla o trascinarla; questo comportava che comunque dovesse essere sollevata da una parte, e se pesava il sollievo era parziale. Una valigia a quattro ruote può essere fatta semplicemente scorrere, e lo sforzo diventa minimo. Poi, pesava già di per sé; era fatta di un materiale plastico spesso, ruvido, infrangibile, rimasto intatto negli anni, ma ormai superato dai nuovi ritrovati della chimica, leggeri e sottili. Aveva, infine, delle tracce d’usura.
Niente di grave: l’esterno, considerando l’età, era perfetto, ma all’interno le due tasche laterali in tela e i nastri intrecciati per trattenere il contenuto, avevano perso elasticità, sfibrati. Avevo provato a ridurre la loro lunghezza con qualche punto di cucitrice, ma il risultato restava un rimedio così così. E poi la maniglia: non era più la sua originale, l’aveva sostituita Marino – il mio vicino dall’ingegno tuttofare – con una simile, di recupero, ridando vita a una valigia ormai morta, perché senza manico una valigia è come una bicicletta senza pedali.
Avventure doganali americane
Poi si arriva a un paio d’anni fa, anzi, credo fosse il 2010. Il viaggio era in Colombia, a Medellin, per una fiera di abbigliamento con sfilate di moda, e dovevo rientrare a Milano via Bogotà-Miami. A Miami la coincidenza era stretta e, soprattutto, avrei dovuto ritirare il bagaglio e reimbarcarlo sul volo per l’Italia perché dalla Colombia non poteva essere indirizzato alla destinazione finale. L’aereo da Bogotà arrivò in ritardo. L’affollamento al controllo passaporti per l’ingresso negli Stati Uniti era chilometrico, la coda si muoveva lentamente, e i tanti video turistici piazzati per distrarre i passeggeri non riuscivano ad attutire la mia angoscia. Ero solo e sarebbe stato un bel guaio perdere la coincidenza. Alla fine passai il varco della dogana e mi lanciai verso i nastri della consegna bagagli.
La mia Samsonite stava già girando, chissà da quanto, e mi precipitai a raccoglierla per correre al check-in dell’Alitalia. Ma era monca: senza maniglia. In quel momento non c’era niente da fare: cercare la maniglia sarebbe stata un’inutile perdita di tempo, le probabilità di trovarla pressoché nulle. L’afferrai per la sbarra e arrivai ansimando al banco Alitalia. Poi l’aereo partì con più di un’ora di ritardo: quanta ansia sprecata, e forse ci sarebbe stato anche il tempo per guardare se la maniglia fosse sul nastro trasportatore. Troppo tardi. Ma col senno di poi, il fatto di dover ritirare e rispedire il bagaglio a Miami fu un miracolo. Con la maniglia, infatti, andò persa l’etichetta con il mio nome ma soprattutto la fascetta con la sigla dell’aeroporto di destinazione e col numero della carta d’imbarco; io riconobbi la mia valigia, è ovvio, ma se questa avesse dovuto essere caricata su un altro aereo dal personale di scalo, così, anonima, sarebbe andata perduta forse per sempre. (Non so se allora usavo già mettere tutte le indicazioni sul mio conto in un foglio grande appoggiato all’interno, sopra ai vestiti, per fare in modo di essere rintracciato anche nel caso di distruzione delle etichette esterne).
Quando le maniglie volavano
Anche la maniglia ha una sua storia, una storia nella storia. A New York, dove trascorsi due mesi nel 1993, alla fine del soggiorno ripartii con due valigie rispetto alla sola Samsonite dell’andata. L’altra – cinese, capiente, di tela, da emigrante – la comprai in Canal Street per pochi soldi. Doveva servire solo per quel viaggio di ritorno, e così fu. Ricordo che stavo riportando in Italia di tutto, libri, scatolette di salse e di cibi per la mia collezione, vestiti e scarpe nuovi, regali, persino degli utensili da ferramenta che non avevo mai visto prima in Italia (e che da quel giorno, guarda un po’, rivedo in ogni negozio).
La signora dell’appartamento chiamò un portiere per aiutarmi a portarle giù: avevano un peso che nessuna compagnia aerea oggi lascerebbe passare, come allora avvenne, senza costosi sovrapprezzi. L’uomo, in livrea, aveva la pelle di un marrone scurissimo, i tratti grossolani ed era alto e possente come un pugile. Ma quando sollevò le due valigie vidi barcollare anche lui. E dalla Samsonite si sfilò la maniglia, che gli rimase in mano lasciandolo sorpreso come un ebete. Con il taxi che aspettava giù e l’aereo che partiva dopo poche ore, non era un problema da poco.
L’inserviente, che si sentì responsabile nonostante non avesse alcuna colpa, cercò di risistemare le punte in ferro negli appositi alloggiamenti (capii lì com’era fatta una maniglia di valigia: un pezzo di ferro molto rigido, sagomato, ricoperto di gomma per l’impugnatura, e due punte scoperte, in ferro appunto, inserite in due buchi opposti nei quali ruotano). La valigia era talmente pesante che il ferro si era deformato, il dorso si era incurvato e le due punte erano uscite. Con uno sforzo che a me parve sovrumano, l’uomo riuscì a ri-spingere dentro i mozzi, e la valigia riprese fiato. Ricordo che rimasi imbarazzato per la mancia, o non avevo più dollari o ne avevo uno solo. Sono tuttora certo che lui, giustamente, si aspettasse di più. Ci fu una curiosa appendice a quel viaggio. A Malpensa la Samsonite arrivò perfetta, la valigia cinese senza la maniglia: che scambio di sorte! Riuscii a guadagnare casa trascinandola per il maniglione laterale, feci denuncia all’aeroporto e quasi subito gli uffici dell’Alitalia me la rimborsarono, cash, sulla parola. Di essa non ricordo più nulla.
Da un continente all’altro, semper vigilans! – Da quel giorno la maniglia della Samsonite rimase sempre leggermente asimmetrica, frutto di quella deformazione newyorkese. Ma funzionava. Qualche tempo dopo, ricordo, con qualche buona martellata la raddrizzai un po’. Il segreto, comunque, era ovviamente quello di non esagerare con il peso. E infatti la valigia, che continuò a viaggiare indefessamente con me o senza di me (poi dirò), non diede più segnali di affaticamento, salvo degli innocui cigolii delle ruote, che con i loro acuti rallegravano (per dire) saloni e passaggi degli aeroporti, hall e corridoi degli alberghi, marciapiedi e attraversamenti di strade, come fossero cinguettii di un uccello migratore. Poi, un giorno del 2008 accadde di nuovo. In un aeroporto indiano, credo Jaipur, valigia e maniglia arrivarono spaiate; quest’ultima era uscita di nuovo dalla propria sede, ma per fortuna non era andata persa. Quasi un segno del destino. L’accompagnatore del viaggio si fece interprete del danno presso l’aeroporto e l’accordo fu che avrei vuotato la valigia in albergo, l’avrei rimandata allo scalo e lì avrebbero deciso se ripararla o sostituirla. Dissi subito che avrei preferito venisse riparata. E così fu: 24 ore dopo la mia vecchia Samsonite Saturn, ormai ventottenne, mi fu recapitata in camera. La maniglia era un po’ storta, come a New York, ma resisteva. E per tutto il viaggio non diede noie, nonostante l’India sia un luogo di acquisti smodati.
Piacenza, ultima speranza – Insomma, arrivai a Milano con la Samsonite senza maniglia. Cominciai a telefonare a qualche riparatore: ma tutti i magazzini, tutti i negozi, lo stesso concessionario ufficiale della marca americana, tutti gli artigiani interpellati anche fuori città, tutti i possibili risolutori del problema trovati su Internet, mi diedero la stessa risposta: valigia troppo vecchia, nessun pezzo di ricambio reperibile per il modello Saturn. Uno soltanto, credo a Piacenza, disse di avere un manico in magazzino, ma non nero, rosso. Quando poi, però – rassegnato al colore: e questa era una grande prova d’affetto – lo risentii per organizzare la consegna, disse che si era sbagliato. Insomma, questa volta la valigia sembrava condannata. Le ero sentimentalmente legato, dopo tanti anni, e vederla finire così mi addolorava. Dovevo pensare a una fine gloriosa. E misi a punto un progetto.
Le “mani” di Marino – “Vado a Roma con il Frecciarossa – mi dissi – con la valigia senza manico, vuota. Le regalo l’ultimo viaggio. Poi la lascio in treno e me ne vado, o la abbandono in stazione, vicino a un bar, come se fosse dimenticata. Qualcuno l’aprirà e farò trovare all’interno, in una busta, la sua storia, dall’acquisto in poi, e il caso bizzarro di una valigia anonima, vuota, abbandonata a Termini con una lettera d’addio potrà magari finire sui giornali come un piccolo frammento di vita urbana”. Raccontai del mio progetto a un amico, Claudio, il quale, forse meno romantico ma certamente più lucido di me, mi disse: “Bravo: così chiamano gli artificieri e ti denunciano per procurato allarme. Le stazioni sono piene di telecamere, non puoi farla franca”. Abbandonai il proposito. Poi, rientrato a Milano, arrivò un invito a un viaggio di lavoro in Cina, credo nel deserto del Gobi. Mi dissi: è l’occasione giusta; cerco di rimediare una maniglia provvisoria, parto con la Samsonite e poi mi compro una valigia nuova a Pechino o a Shanghai (dove, va detto, questo genere di oggetti costa tra un decimo e un ventesimo dei prezzi italiani).
Interpellai proprio Marino, il pensionato tuttofare che un giorno, sorridendo, si era autodefinito così: “Se fossi nato nel Quattrocento sarei stato Leonardo da Vinci”. Iperboli a parte, non aveva tutti i torti. Il giorno dopo mi riportò la mia Samsonite del 1980 con una maniglia nuova, perfetta, un gioiello. Come ha fatto? gli chiesi. “Ho smontato una vecchia 24 ore che non mi serviva più, ho svitato gli alloggiamenti dall’interno ed è stato un gioco da ragazzi risistemare il tutto”.
Questo è Marino, capace con la cose e onesto con le persone. Solo che ora mi si poneva un imbarazzo: come facevo a liberarmi in Cina di una valigia recuperata alle sue funzioni? E infatti partii e tornai con essa. Dopo quel viaggio la usai ancora più volte, dovrei pensarci bene quante, ma sicuramente l’ultimo è stato alle Maldive, un mese fa. La Samsonite funzionava benissimo per i viaggi di 4, 5, 6, 7 giorni; per quelli più brevi sono più comode borse o trolley, per quelli più lunghi c’è la Delsey colossale. Ogni volta che la usavo era, in fondo, un tuffo nel passato, era ormai una valigia piena di ricordi. Ma ogni volta, chiudendo le serrature e mettendo la chiave nel portafogli per non perderla (il portachiavi era da trent’anni una medaglietta dell’Ucid, unione di imprenditori cattolici, con la piazza di Udine sul verso), mi dicevo che aveva fatto il suo tempo, che avere la chiave e rischiare di perderla era un’inutile cosa superata dai tempi.
Storia di una valigia “around the world” – La Samsonite, in quel settembre del 1980, fu un acquisto formidabile: e non lo dico solo ora, per riconoscere 33 anni di onorato servizio. Fu formidabile perché aveva le ruote. Nessuna valigia all’epoca aveva le ruote, o quasi. Quando l’acquistai – 120 mila lire dell’epoca, un’enormità, in un negozio di Udine gestito da una coppia di conoscenti commercianti-furbacchioni – sentii delle resistenze dentro di me; era un po’ come se mi vergognassi di una valigia con le ruote, mi sembrava un’esibizione più che una funzione. Eppure, mi ricredetti nei giorni successivi.
Partii, con la Samsonite fiammante, per Mosca fino a San Pietroburgo via Jaroslavl-Novgorod. Viaggi interni in treno, banchine di stazione lunghissime, interminabili, tutti i compagni di viaggio con le mani spaccate dalla fatica e io fresco come una rosa. Credo di essere stato raramente invidiato tanto. Da lì cominciò una serie di viaggi molto intensa. Irlanda, in quello stesso 1980, poi Londra, Parigi, Marocco (1984, fu il viaggio di stacco tra Udine e Milano, dove mi trasferii per lavorare al Giornale), poi via via Stati Uniti, tante altre volte a Parigi, e poi Praga, Varsavia, e, più in là, Vietnam, Cina, India, Armenia, Turchia, e poi Finlandia, Svezia, Kenya, Messico, Salvador, Honduras, i primi viaggi a Cuba (nei successivi passai alla Delsey gigante perché c’erano sempre regali da portare), Bermuda (fu l’unica valigia del gruppo a non essere smarrita da British Airways: delle colleghe piansero lacrime compassionevoli, private dei loro abitini), Barbados, Antigua, Curacao, e ancora Brasile, Argentina, Cile, la Terra del Fuoco.
Ho visitato un centinaio di Paesi, in tanti sono stato più volte, e nella maggior parte dei viaggi mi ha fedelmente seguito lei: amiche, fidanzate, compagne, mogli cambiavano, lei c’era sempre. E tanti viaggi Udine-Milano, Milano-Udine, Udine-Milano in treno. Ha girato più di me, dicevo prima, perché in un viaggio in Messico, nel 1989, non arrivò a destinazione e fu rintracciata, dopo qualche giorno, a Düsseldorf, dove avevamo fatto scalo. Dissi di trattenerla lì, l’avrei ripresa al ritorno, tanto magliette, pantaloni, costume da bagno e biancheria li avevo già ricomprati. Ma a Düsseldorf, al ritorno, si scoprì che l’avevano spedita a Cancun, dov’era arrivata dopo la nostra partenza. La davo per perduta: invece arrivò a casa, in via Correggio, venti giorni dopo, e credo che da qualche parte ci sia ancora una foto scattata da Alessandra che ritrae il mio abbraccio alla valigia ricomparsa e ritrovata.
Da Düsseldorf era stata mandata a Cancun, per raggiungermi, e da qui a Città del Messico, a New York e, finalmente, a Milano. E’ curioso pensare a un viaggiatore e a una valigia che si rincorrono per il mondo e che si ricongiungono a casa, al ritorno da luoghi diversi, come una coppia indipendente. Arrivò con le serrature aperte ma dentro non mancava nulla.
Pensierino della sera… – Adesso che ho scritto tutto questo sento una stretta di pentimento. La valigia nuova è leggera, corre via senza sforzo, ha il soffietto che le permette di ingrandirsi, si chiude con la combinazione… Ma davvero è stato sensato abbandonare la mia vecchia Samsonite Saturn 1980, compagna di tanti viaggi e quasi pezzo di me stesso? O è stato un gesto scellerato?
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