Giunto al quinto giorno il viaggio nel Gujarat prosegue piacevolmente dopo aver lasciato alle spalle i due quasi millenari templi di Patan e Modhera, gli Asini selvatici nel Little (piccolo) Rann (deserto) of Kutch, l’infinita distesa di sale nel Rann più grande (popolato da antiche tribù esperte in un ancestrale artigianato) e nel capoluogo del Kutch, Bhuj, bei palazzi (uno fu il set di un importante film di Bollywood), purtroppo colpiti dal drammatico terremoto del 2001(7,9 della scala Richter, uno sfacelo che devastò financo la morfologia del territorio).
Tracce coloniali e dimore “da” Maharajà
Arrivati al punto più nord-occidentale della spedizione (un centinaio di chilometri di deserto e si entra nel Pakistan) si punta a sud-est, nella zona del Gujarat più popolata e ricca (non certo di soldi ma di possibilità di sfamarsi: la terra è generosa, abbondano cereali, frutti, ortaggi, si trova sempre qualcosa da accompagnare al Chapati, versione indiana della gloriosa, romagnola Piadina). Circa 250 chilometri da Bhuj a Gondal, stop a Rajkot, capitale di un opulento principato, poi sede di importanti uffici amministrativi coloniali (nel museo voluto a fine ‘800 dal colonnello John Watson in stile che più vittoriano non si può, potrebbe mai mancare la statua della Queen? Certo che no) e infine temporanea residenza di Gandhi (visita della casa, tanti indiani in posa per foto ricordo). A Gondal (100.000 abitanti) ex capitale di uno staterello (1000 chilometri quadrati) governato dai Rajput Jadeia (riporta una guida: casta di guerrieri hindu un tempo dominatori dell’India nord-occidentale), le ricchezze non fecero certamente difetto. Una prova? Due. Prima di essere alloggiato in un deluxe Palace che nel XIX secolo ospitò potenti e vip in deferente visita al Maharajà Bhagwat Singhji (e adesso accettano pure me, cosa non fanno i ricchi per campare) vengo invitato a visitare l’adiacente garage-museo della Real Casa e mi imbatto in una cinquantina dei modelli più costosi delle case automobilistiche mondiali.
La preziosa “pancia” dell’Aga Khan
E visitando al Naulakha Palace il museo con memorabilia di usi e costumi nell’India islamica, scopro la veridicità di quella che ai miei tempi si riteneva una balla (che “l’Aga Khan valeva tant’oro quanto pesava”, e chissà che solo per questo minimo dettaglio Rita Hayworth si maritò col figlio dell’Aga, Karim, quello della Costa Smeralda). Ammiro infatti la bilancia certificante (ultima celebrazione,1934) la pesantezza del locale Maharajà con contestuale trasformazione di carne e ossa in più concreti chili d’argento: che nella citata performance fu graziosamente ceduto ai poveri (si spera Harijan, i ben noti “intoccabili”, fanalino di coda nella classifica Hindu delle caste). Il tempo di constatare che ormai gli unici Maharajà rimasti al mondo sono i pedatori del Calcio (ma forse Messi e Ronaldo valgono più dell’oro che pesano) e si arriva a Junagadh. Un’altra delle città ‘medie’ (circa 200.000 ab., non pochi, ma siamo in India) che rendono valido un tour nel multietnico Gujarat (nei frangenti della spartizione il Nawab-nababbo di Juanagadh avrebbe annesso il suo ministato al Pakistan, ma la maggioranza hindu disse no e lo cacciò).