I bengalesi, nel grande panorama etnico-linguistico dell’India, godono di due indubbi vantaggi: sono infatti etnicamente e linguisticamente omogenei. Chi vive nello stato del Bengala é simile a coloro che abitano nel Bangladesh; si differenziano unicamente per la fede religiosa (indù e musulmani) e non è una “differenza” da poco. Il bengalese è una lingua indoeuropea della famiglia indo-iraniana che si è evoluta come discendente dal sanscrito. Con quasi 200 milioni di individui madrelingua è la sesta lingua più parlata al mondo e la seconda lingua più parlata in India, dopo l’hindi. Va da se che a Calcutta il trionfo dell’idioma locale è più vivo che altrove nella zona che a suo tempo è stata separata dal quartiere inglese.
Il quartiere Indù
La zona indù si sviluppa lungo le arterie Rabindra Sarani e Jatrinda Avenue, a nord del nucleo originario inglese. Le vie che le intersecano pullulano di abitazioni affastellate e densamente abitate. I numerosi musulmani di Calcutta, circa due milioni di adepti, hanno il loro centro religioso nella moschea di Nakhoda, situata a destra della Rabindra Sarani Road. E’ una moschea in stile moghul, dotata di grandi cupole a bulbo e due minareti alti ciascuno 46 metri. La vasta costruzione in pietra arenaria rossa può accogliere sino a diecimila fedeli contemporaneamente. Nella Jorasanko Lane, poco più avanti, si trova la casa natale di Tagore, insignito nel 1913 del premio Nobel per la letteratura. Un edificio davvero interessante è il Marble Palace, costruito nel 1835 da Mullick Bahadur, esponente di rilievo di una nobile e potente famiglia i cui discendenti ne sono ancor oggi proprietari; il palazzo è in stile palladiano e presenta ben novanta varietà di marmi. Sul Dinendra Street c’è poi il tempio jaina di Shiltanath.
Howrah, il sobborgo metropoli
Una vera attrazione per le migliaia di turisti che visitano Kolkata è l’immenso ponte in ferro che collega l’area indù della città con l’altra grande città (o se si preferisce, sobborgo) di Howrah. Immenso agglomerato industriale con gli abitanti che occupano i “bustees”, insieme di capanne proliferate nell’Ottocento per dare asilo a chi veniva qui per lavorare. Il ponte sul fiume Hooghly, vero “inferno” umano, brulicante di traffico incessante ad ogni ora del giorno, è stato così descritto da Dominique Lapierre: “… sicuramente il ponte più ingombro dell’universo. Ogni giorno, più di un milione di persone e centinaia di migliaia di veicoli lo attraversano in un allucinante vortice di ingorghi. (…) Il caldo torrido per otto mesi all’anno fa sciogliere l’asfalto delle strade e dilata le strutture metalliche del ponte, tanto che di giorno l’opera misura un metro e cinquanta più che di notte”. Chi vuole provare emozioni forti, può tentare di attraversare a piedi il celeberrimo ponte. Oltre ai veicoli, alle motorette, ai molti “uomini cavallo” che reggono le stanghe di carretti ingombri di mercanzie o i risciò carichi di persone, troverà ai bordi una fila ininterrotta di venditori che espongono ogni genere di oggetti; piccoli traffici da sopravvivenza pura, nella calca più assoluta e nel caldo opprimente e irrespirabile.