
“L’alpinismo porta con sé dei rischi, ma anche tutta la bellezza che si nasconde nell’avventura dell’affrontare l’impossibile” (Reinhold Messner)
Un altro fenomeno fondamentale per comprendere il rapporto tra il camminare e la natura è la nascita dell’alpinismo; cioè l’arte di arrivare in cima alle montagne a piedi e qualche volta anche con le mani in verticalità. Anche se in genere l’aspetto più enfatizzato è quello della scalata, quasi tutte le ascensioni sono soprattutto camminate.
Petrarca e il Mont Ventoux

L’alpinismo potrebbe essere definito l’arte di camminare in verticalità dato che per arrampicarsi i buoni scalatori usano quanto più possibile le gambe.
Come per il camminare come fattore estetico-culturale, anche la storia dell’alpinismo comincia in Europa verso la fine del XVIII secolo, quando la curiosità e la mutata sensibilità spronarono alcuni ardimentosi non solo a viaggiare attraverso le Alpi (da qui il termine “alpinismo”) ma anche a cercare di raggiungerne le cime. In realtà, di norma, quasi tutte le storie classiche sull’alpinismo e sull’estetica del paesaggio cominciano con Petrarca, il primo ad ascendere su una montagna per puro piacere e a goderne la vista dalla cima.
Certamente, altri scalatori avevano scalato le montagne di altre parti del mondo già molto tempo prima del 1335, anno in cui Petrarca salì sul monte Ventoso, nella Provenza francese. Ma il poeta italiano simboleggia la futura pratica, di derivazione romantica, del viaggio per i monti per godere di un piacere estetico e della conquista della vetta.
L’orrida bellezza del “sublime”

In tutto il pianeta le montagne sono state considerate come soglia fra il terreno e l’ultraterreno, cui attribuire significati sacri. L’Europa cristiana è stata la sola a vedere le montagne come regno infernale. Questa fu la causa che tenne l’uomo lontano per così tanto tempo dalle sommità della nostra Terra. Per cominciare la conquista della verticalità, gli europei dovettero recuperare quell’ammirazione per la natura che in quasi tutto il mondo non era mai venuta meno.
Fu, infatti, in quegli anni che venne in auge una parola verticalità capace di qualificare in maniera puntuale e precisa la reazione emotiva che si prova al cospetto di bellezze della natura come precipizi e ghiacciai: il sublime. Il termine traeva origine da un trattato del II secolo d.C. intitolato “Del sublime”, attribuito al greco Longino. Nessuno se ne occupò molto fino a quando, nel 1712, una traduzione in lingua inglese riaccese l’interesse dei critici. Da qui, il valore di un paesaggio non era più determinato solo da criteri estetici, o da considerazioni di ordine pratico, bensì dalla capacità dei luoghi di suscitare in noi il senso del sublime. Ma cosa è il sublime? Burke tentò di spiegarlo nel suo “Inchiesta sul bello e il sublime”, dichiarando che il sublime è sempre legato a una sensazione di debolezza. I paesaggi belli sono infiniti, ma non tutti possono essere definiti sublimi. Un paesaggio poteva evocare il senso del sublime solo se evocava quello di potenza, di una potenza superiore a quella degli uomini e in grado perciò di minacciarlo. Cosa più delle alte vette e dei dirupi delle Alpi poteva richiamare questa sensazione?
La conquista del Monte Bianco

In Europa la storia dell’alpinismo ebbe inizio con una competizione. Nel 1760 Horace Bénédict de Saussure, un nobile scienziato ginevrino ventenne, si trasferì nella valle di Chamonix alle pendici del monte Bianco. Lo scienziato era talmente affascinato dai ghiacciai che decise di dedicare il resto della sua vita al loro studio e, inoltre, istituì un grosso premio in denaro per chi avesse raggiunto per primo la vetta del monte Bianco, a 4810 metri di altitudine. Nel 1786, Michel Gabriel Paccard, un medico che risiedeva nella valle, raggiunse la cima con l’aiuto di un cacciatore della zona. Dopo quattro tentativi in solitaria falliti, Paccard decise di assumere Jacques Balmat, un forte scalatore che si guadagnava da vivere cacciando. Partirono per la cima in una notte di agosto senza l’attrezzatura all’avanguardia di oggi, ma solo con un paio di lunghi pali. Quando arrivarono alla terrificante Vallée de Neige, un profonda conca circondata da pareti di ghiaccio, Balmat pregò il medico di tornare indietro e di rinunciare, ma Paccard decise di proseguire.
Camminate (arrampicate) e… discussioni!

I due superarono la temibile valle inoltrandosi per primi oltre essa. Al mattino, quattordici ore dopo la partenza, arrivarono in cima. Impiegarono un’altra giornata per riscendere a valle, mal conciati dal sole e dal vento, ma trionfanti. Ma la storia non finì lì. A qualche giorno dall’arrivo Balmat cominciò a mettere in giro la voce di essere stato lui il vero e unico esploratore della cima del Bianco, dichiarando che Paccard aveva ceduto qualche centinaio di metri prima della cima. Il suo racconto andò gonfiandosi e diventò verità. Soltanto nel XX secolo si scoprì che quelle di Balmat furono solo calunnie e il medico Paccard poté avere il giusto riconoscimento. Al di là delle calunnie, l’ascesa di Paccard e Balmat ebbe subito una vasta eco. Appena fu dimostrato che il monte Bianco si poteva scalare, molti cercarono di conquistarlo. Alla metà del XIX secolo erano arrivate in vetta quarantasei squadre. La moda si diffuse anche alle altre vette alpine e piano piano tutte le cime furono conquistate.
Avventure del “camminare in verticalità”

Possiamo delimitare l’età dell’oro dell’alpinismo tra il 1854 e il 1865, gli anni in cui quasi tutte le vette delle Alpi furono scalate per la prima volta. Fu un’età dell’oro quasi interamente britannica. La metà delle prime ascensioni importanti dell’epoca è stata compiuta da ricchi dilettanti inglesi accompagnati da guide locali.
Nel 1865 fu scalato il Cervino, l’ultima cima importante delle Alpi ancora inviolata. Questa impresa però si accompagnò ad una sciagura che causò le prime condanne del nascente sport. Durante la scalata precipitarono e morirono quattro dei sette componenti della squadra. In Inghilterra l’alpinismo fu ripetutamente condannato dall’opinione pubblica perché ingiustificatamente pericoloso. La conquista dell’ultima vetta irraggiungibile e la sciagura che ne seguì segnarono la fine dell’età dell’oro dell’alpinismo.
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