Trecento anni di rinvenimenti nell’area archeologica di Ercolano sono stati esposti in un’unica mostra che, tra ritratti e statue di dei, eroi, notabili e uomini qualunque, racconta la vita della città alle pendici del Vesuvio sparita, unitamente a Pompei, nell’anno 79 dell’era di Cristo. Per chi ha visitato l’antica Erculaneum, la città che si vuole fondata da Ercole di ritorno dalla lontana Iberia, la mostra “Ercolano. Tre secoli di Scoperte” tenutasi presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ha offerto un’occasione unica di conoscenza e apprendimento di un evento così lontano nel tempo e così straordinario.
A Ercolano, falegnameria d’alta scuola
Una delle principali eredità di Ercolano sono i reperti in legno, numerosissimi e che ancora attirano lo sguardo del visitatore. Basta svoltare tra le insulae, gli isolati creati dall’incrocio dei cardi e dei decumani, per imbattersi in quanto resta del portale di legno della Casa del Salone nero, nel meraviglioso tramezzo di legno a quattro battenti che dà, appunto, il nome alla Casa del Tramezzo di legno o nel torchio perfettamente conservato della Casa del Lanarius.
“Grazie a questa infinità di reperti, abbiamo scoperto che i romani erano abilissimi falegnami” informa la professoressa Ciarallo “e con il supporto di dipinti e fonti letterarie ci siamo fatti un’idea abbastanza precisa sia delle tecniche che impiegavano sia del valore sociale che attribuivano alle varie specie pregiate di legno”.
Volti e figure tra luce e tenebre
Centocinquanta pezzi, tra sculture, affreschi ed iscrizioni, per la prima volta riuniti insieme dopo il ritrovamento, hanno disegnato un percorso suggestivo nel quale la luce è l’elemento che ha accompagnato il visitatore in una sorta di viaggio nell’umanità scomparsa sotto la colata piroclastica del vulcano.
La luce intensa è stata scelta per avvolgere le immagini di dei, eroi e dinastie imperiali, quasi a voler sottolineare lo splendore immortale che gli abitanti di Ercolano attribuivano loro. La luce in graduale attenuazione è stata impiegata per la sezione dedicata alle famiglie illustri ercolanesi. Una luce che via via si sfuma sui volti e le sculture della gente comune, esposti di fronte alle liste dei cittadini incise su marmo degli Albi degli Augustali. Infine la semioscurità ha avvolto gli scheletri degli anonimi sventurati che, cercando salvezza sulla spiaggia, vennero ingoiati dalla lava, diventando monumento di sé stessi e della caducità dell’ esistenza umana.
La luce ha dato vitalità a quei volti e il visitatore è stato istintivamente portato ad andare a ritroso nel tempo, immaginando una città viva sepolta all’improvviso dalla catastrofe e dal buio.
Un’area archeologica di immenso valore
Una sensazione di vitalità e di quotidianità resa ancora più forte dall’ultima sezione della mostra che proponeva cento ottanta reperti tessili, compreso un esteso frammento di canapa ritrovato nel 2007 vicino alle Terme, esposto per la prima volta al pubblico. Sacchi, sacchetti, suole di scarpe, piccoli borsellini e frammenti di tela, probabilmente quel che è rimasto di tuniche, mantelli e altri inumenti. Una collezione unica al mondo che evoca l’abbigliamento dell’epoca, fedelmente documentato negli affreschi e nelle altre opere proposte.
Una mostra, dunque, che si è rivelata quale coronamento dell’intenso lavoro sin qui svolto e insieme ideale preludio alla visita agli scavi. I primi reperti dell’antica città romana affiorarono casualmente durante alcune perforazioni eseguite agli inizi del 1700, seguite nel 1738 dalla prima campagna di ricerche voluta da re Carlo di Borbone. Quelle prime esplorazioni, rese possibili aprendo cunicoli sotterranei, consentirono di asportare opere e reperti senza svelare nulla delle costruzioni della città. La sistematica operazione di scavo a cielo aperto avvenne, più tardi, tra il 1927 e il 1958 ad opera di Amedeo Maiuri, che mise in luce la maggior parte dell’attuale parco archeologico.
Tra i legni locali, il faggio e l’abete; non più presenti
Fonti dell’epoca ci dicono che lo stesso Cicerone si sia non poco svenato per il mobilio in Tuia Tetraclinis, un legno proveniente dall’Africa settentrionale, dall’isola di Malta e dalla Spagna meridionale. “Come capita anche a noi” continua Ciarallo “i più ricchi ricorrevano a materiali esotici importati; quelli benestanti impiegavano materiali locali per la struttura dei mobili, ma usavano una impiallacciatura di materiali più pregiati”. Lo studio dei pollini presenti nel terreno, negli strati risalenti ai tempi dell’eruzione, ha permesso di determinare quali fossero i legni di produzione locale. “Abbiamo appurato che in zona esistevano una ventina di specie di alberi impiegati per la falegnameria” aggiunge la direttrice del laboratorio “tra queste il faggio e l’abete, piante che attualmente non crescono più da queste parti e ci dimostrano come il clima sia cambiato nel corso di due millenni”.
La lava del Vesuvio ha distrutto e conservato
La discesa lungo pareti tufacee verso il piano della città antica, mostra l’immenso volume di materiale vulcanico riversatosi quel 25 agosto di quasi duemila anni fa. Una colata che seminò morte e distruzione e che, in un paradosso della natura, ha conservato tracce e costruzioni ineluttabilmente destinate a deperire nel tempo. “Ercolano è generosissima nel riportarci una mole enorme di reperti organici. Si tratta di tessuti, papiri, legni, reperti alimentari, tavolette cerate e prodotti della terra. Tutti ricchissimi di informazioni molto preziose per ricostruire gli aspetti minori e quotidiani della civiltà romana”. A parlare è Annamaria Ciarallo, una specie di “Sherlock Holmes” dell’antichità, direttrice del Laboratorio di Ricerche applicate della Soprintendenza archeologica di Pompei. Attraverso studi biologici, botanici e medici, cerca di svelare le informazioni che ci arrivano dai reperti degli scavi e di ricostruire usi, abitudini e vita quotidiana delle città romane alle pendici del Vesuvio.
Reperti organici a “raccontare” la vita di un tempo
Tra gli scaffali del laboratorio della professoressa Ciarallo, sono migliaia i reperti organici provenienti dagli scavi. Erbe, conchiglie, semi e legni che ci permettono di ricostruire le coltivazioni, i traffici, le abitudini alimentari, perfino le ricette cosmetiche e di cucina. È materiale preziosissimo che si pensa di rendere completamente fruibile a beneficio del visitatore e che per ora racconta agli studiosi dettagli straordinari ed evoca, in chi ha la fortuna di curiosare, emozioni uniche. È il caso di un paio di pagnotte carbonizzate che danno ancora l’impressione di odorare di forno e di vita, così come sembrano vive e frequentate le stanze delle case private e degli edifici pubblici di Ercolano.
La colata piroclastica ha cementato l’antica città in un tufo biancastro che rende da sempre difficile lo scavo, ma che proprio per questo ha preservato gli edifici in uno stato di conservazione migliore rispetto a Pompei, con molti piani superiori delle abitazioni pervenuti intatti. Così ci si imbatte di frequente in quanto resta di travi e strutture di legno carbonizzato, che dimostrano come questo materiale venisse usato anche per impieghi strutturali. “Questi scavi ci offrono anche una testimonianza di come andava mutando l’impiego del vetro” aggiunge Ciarallo “proprio nel primo secolo assistiamo alla produzione di lastre, che potremmo definire ‘industriali’. Fino ad allora il vetro era soffiato e i vetri per le finestre erano di dimensioni molto ridotte, come quelli trovati a Pompei. Ercolano ci ha tramandato, invece, delle strutture di legno che sostenevano lastre di discrete dimensioni. Questo testimonia che la lavorazione era, appunto, cambiata e permetteva di realizzare delle ampie vetrate per i giardini d’inverno che adornavano le case più ricche”.
Centro di villeggiatura, per i ricchi della vicina Neapolis
A differenza di Pompei, le pietre dei cardi e dei decumani non sono incise dalle tracce delle ruote delle carrozze e delle bighe; segno che questa cittadina era meno caotica. Gli abitanti di Ercolano si dedicavano certamente alla pesca e in città veniva svolto soltanto il piccolo commercio. La posizione geografica e il clima mite ne fecero un luogo di villeggiatura, soprattutto per i ceti più ricchi della vicina Neapolis. Sorsero così splendide dimore, ricche di decorazioni marmoree, statue, mosaici e affreschi. La Villa dei Cervi è certamente un esempio del gusto estetico di allora. Tra il 1981 e il 1993 sono stati rinvenuti, vicino al recinto sacro dedicato a Venere nei pressi della spiaggia, circa trecento scheletri di fuggiaschi, rimasti sepolti dalla prima pioggia di materiale vulcanico ad una temperatura di quattrocento gradi. I corpi si trovano nei fornici che sostengono le terrazze sovrastanti, ad una quota inferiore al livello del mare. Anche in considerazione delle difficoltà di conservazione, sono stati realizzati calchi di alcuni di questi corpi, vicino ai quali sono stati ritrovati oggetti preziosi, gruzzoli di monete e finanche una borsa con strumenti medici. Cose utili e preziose per chi scappa. Una fotografia della tragedia e di un’umanità che ci accomuna, al di là del tempo.
Il famoso “rosso pompeiano” dalle ghiandole di molluschi
Tra gli edifici meglio conservati la Palestra, il Collegio degli Augustali, due stabilimenti termali e il Teatro. Tra le abitazioni sono da ricordare in primo luogo la Casa del Bicentenario, la Casa dei Cervi e la monumentale Villa dei Papiri, situata appena fuori città, ancora in fase di scavo e di studio, dove stati rinvenuti oltre duecento papiri. L’antico Teatro, saccheggiato dai primi scopritori del Settecento, è ancora oggi sepolto sotto uno spesso strato di tufo ed è possibile osservarne alcune strutture solo addentrandosi per scale e cunicoli. E proprio in questi anfratti capita oggi, a volte, di fare un curioso incontro: con falchi e falconieri impiegati da qualche anno per proteggere questo luogo classificato dall’UNESCO “Patrimonio dell’Umanità” dalla nidificazione selvaggia e dal guano acido di colombi ed altri uccelli che sporcano e distruggono gli affreschi e le statue.
“Ercolano ci ha restituito anche molti tessuti; quelli più frequentemente impiegati all’epoca erano la lana, il lino e la canapa. Esisteva un’altra fibra naturale prodotta in zona che derivava dalle piante di ginestra. Spesso, per le colorazioni, si impiegavano tinte naturale di piante presenti in zona. Il color porpora era poi un vero e proprio status symbol: questo a causa dell’elevatissimo costo. Per ottenere qualche grammo di colorante, bisognava infatti lavorare decine di migliaia di molluschi, nelle cui ghiandole era contenuto il pigmento”.
Notizie utili
Per visitare gli Scavi di Ercolano Apertura dal 1° novembre al 31 marzo: tutti i giorni dalle ore 8.30 alle ore 17.00; ultimo ingresso alle 15,30.
Dal 1° aprile al 31 ottobre l’ingresso è giornaliero, dalle ore 8.30 alle ore 19.30; ultimo ingresso alle 18.
Giorni di chiusura: 1° gennaio, 1° maggio, 25 dicembre.
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