Venerdì 22 Novembre 2024 - Anno XXII

Ai confini del mondo. Passaggio in Afghanistan

Afghanistan

Il libro-dvd di questa settimana, “Ai confini del mondo”, Chiare Lettere è il racconto dei viaggi e delle inchieste di Giorgio Fornoni, un reporter indipendente che negli ultimi trent’anni ha percorso più volte la distanza che separa la Terra dalla Luna. Con un’idea molto particolare di giornalismo: documentare e testimoniare le guerre nel mondo con l’attenzione indirizzata all’uomo che soffre e non alla geopolitica o ai grandi interessi internazionali

Passaggio in Afghanistan (1996)

Un ritratto di Giorgio Fornoni
Un ritratto di Giorgio Fornoni

I nuovi padroni di Kabul

Coltivazioni di oppio, fabbriche di armi, contrabbando e faide tribali sanguinose: questo è il biglietto da visita della pianura di Peshawar, provincia di frontiera nel Nord-Ovest del Pakistan. Nel suo centro e nei campi profughi hanno trovato rifugio più di due milioni di afgani, e l’ondata migratoria non è finita, perché a Kabul la situazione continua a rimanere precaria.
È da Peshawar che comincia il nostro viaggio attraverso un paese massacrato dalla guerra e conteso per la sua posizione strategica e per le ricchezze del suo sottosuolo. Partiamo un mattino presto di una giornata invernale. Dopo pochi chilometri la strada inizia a salire fra i tornanti, in una desolazione affascinante; sulla destra si vede il tracciato della ferrovia costruita dagli inglesi.
Il Passo Khyber, con le sue curve tortuose, è la porta storica che collega le selvagge terre di frontiera del Nord-Ovest del Pakistan all’altopiano afgano. Una porta proibita da vent’anni, che possiamo varcare solo accodandoci a un convoglio della Croce rossa internazionale che porta viveri e medicinali a Kabul, fra resti di battaglie antiche e recenti. Ci sono autoblindo e carri armati lungo tutto il percorso, rottami fuori uso delle fazioni rivali dei leader islamici Hekmatyar e Massud, costretti al ritiro sotto la spinta invasiva della milizia dei taliban, movimento nato nel 1994 tra gli studenti delle scuole coraniche di Kandahar.
Ci aspettavamo una città stremata dalla guerra e dall’isolamento. Kabul ci accoglie invece con i suoi colori, il fascino esotico della sua gente, con la ricchezza di una storia intrecciata con l’Occidente fin dai tempi di Alessandro Magno, con la vivacità dei suoi mercati, eredi dei fasti delle carovaniere asiatiche e della leggendaria Via della Seta. I taliban sono i nuovi padroni di Kabul. Donne velate e relegate in casa, requisizione delle armi e imposizione della Shari’ a, la severa legge islamica, contro la droga e il crimine: così si esprime, dal 26 settembre scorso, il nuovo potere. Non pochi qui lo considerano il male minore.
Nessuno può dimenticare che fra il 1991 e il 1994, in un paese finalmente libero dopo dieci anni di dominazione sovietica, Kabul venne contesa a colpi di cannone e razzi dalle bande dei signori della guerra afgana, ai quali gli americani poco tempo prima avevano regalato armi per quattro miliardi di dollari. Il bilancio fu di venticinquemila morti e mezzo milione di nuovi profughi.

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Ai confini del mondo. Passaggio in Afghanistan

Ora l’emergenza non è finita. A Kabul, capitale fantasma, resta poco meno di un milione di abitanti, l’economia è disintegrata, ridotta alla lotta quotidiana per la sopravvivenza. È una città freddissima in questa stagione. La gente raccatta come può un po’ di legna da ardere e si prepara al lunghissimo inverno, si raccoglie nelle case dalle finestre senza vetri. Noi siamo alloggiati all’hotel Intercontinental: tutti i pochi giornalisti stranieri finiscono lì, sotto il controllo dei taliban, La stanza d’albergo è una ghiacciaia e la luce arriva soltanto di sera per un paio d’ore.
La guerra è alle porte della città; ma è soprattutto l’incubo delle mine, disseminate fra le macerie dei quartieri distrutti, che tiene viva, anche fra i civili, una tensione da prima linea. Si calcola che in tutto l’Afghanistan siano stati posizionati oltre dieci milioni di mine. La bonifica richiederà ancora decenni, guerra permettendo. I feriti da mina occupano un intero reparto dell’ ospedale di Kabul. Ne arrivano ogni giorno e hanno tutti la stessa maledetta storia da raccontare: quella di una vita cambiata per sempre nel lampo di un’esplosione improvvisa, sufficiente a spappolare un piede, una gamba, un braccio.
Ne restano vittima, ancora oggi, seicento persone al mese, per lo più civili, che vanno ad aggiungersi a un esercito di cinquecentomila mutilati per cause di guerra. “È successo cinque giorni fa – ci dice Rohallah, 27 anni – poco fuori Kabul. Camminavo al bordo della strada, poi il terreno è saltato sotto i miei piedi e non ricordo più nulla”.

Kabul
Kabul

A mezz’ora dalla prima linea

Sul fronte a nord di Kabul i taliban lanciano razzi per rafforzare la loro posizione sulle colline. Alla prima linea si arriva in appena mezz’ora dalla capitale, traversando una piana polverosa lungo la quale correva la New Road, la strada principale per il Nord. Sullo slancio della loro trionfale avanzata, in settembre i taliban l’avevano percorsa avanzando fino al Passo Salang. Furiosi combattimenti hanno poi riportato il fronte allo sbocco della Valle del Panshir, difesa dagli uomini di Massud.
«Vinceremo» ci dice convinto il comandante Ahmadullah, in una trincea di prima linea. «Dio è grande, Dio è con noi» ripetono i taliban al fronte, così come nei palazzi del nuovo governo da poco insediato a Kabul. La battaglia di Kabul ha interrotto la strada principale verso il Nord, dunque, ma in Afghanistan la parola d’ordine è lnshallah e tutto è sempre possibile. Così può anche succedere che si parta con un taxi sgangherato da Kabul e, in tre giorni di viaggio avventuroso, lungo una valle laterale si riesca ad attraversare quella pericolosa terra di nessuno che separa i contendenti. Una fascia a sua volta divisa e contesa da un mosaico di etnie e clan tribali.
In una sosta scampo a un’imboscata. Pur in condizioni difficili, una spola di camion, carovane e mezzi di ogni tipo percorre queste rotte fuori mano e mantiene viva la rete dei traffici e dei commerci, da quelli elementari, ai quali è legata la sopravvivenza di intere popolazioni, a quelli inconfessati e in confessabili delle armi e della droga. Una realtà, questa, radicata nella tradizione afgana e ragione non ultima delle sue turbolenti vicende.
È una valle magica: le creste dei monti innevati, le rocce crude, gli alberi di mille colori sul fondovalle, le case di terra con le travi in legno, i muri a secco e poi i bimbi, tanti bimbi impolverati. Quando è l’ora della preghiera gli uomini si fermano in riva ai fiumi per le abluzioni: si tolgono le vesti, che stendono per terra, e invocano Allah, prostrandosi riverenti a colui che dà loro la forza di proseguire il cammino.
I camion si ripiegano su se stessi lungo le strade ricavate sui costoni ripidi e attraversano i fiumi; i passeggeri non corrono il rischio di annegare, ma il freddo li blocca, accovacciati come statue di cera. Il fango sprizza; la polvere avvolge tutto. Eccoci a Jabal os Saraj, la roccaforte del fronte anti-taliban: una cittadina, a soli 60 chilometri da Kabul, invasa dalla pittoresca armata dei mujaheddin di Massud e Dostum, dove nonostante l’animazione della folla e i colori del mercato si respira l’aria pesante della retrovia di guerra. Per ironia della sorte, Massud, l’eroe della resistenza antisovietica, si trova oggi alleato del filosovietico Dostum, che controlla il Nord del paese oltre il Passo Salang.
La loro è un’alleanza di comodo, meno motivata e compatta del fronte avversario, e le speranze di riconquistare Kabul, abbandonata ai taliban senza combattere, si fanno sempre più lontane. Una palazzina bianca, pro-tetta da una scorta di fedelissimi, è il quartier generale del comandante Ahmad Shah Massud, il «leone del Panshir», beniamino dei media occidentali. Incontrarlo non è facile come una volta: Massud appare sempre più raramente in pubblico, sempre più teso, preoccupato e nervoso. Non rilascia interviste. La guerra afgana è anche questo: una lunga, surreale attesa che succeda qualcosa. [continua…]

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