Prendete un lupo azzurro, improbabile come i sogni e le favole. Lasciatelo libero sui monti Khangai, a mezza via tra Cina e Siberia. Poi fatelo accoppiare in una valle verde, dove l’acqua scorre limpida come il cristallo e il vento soffia come natura vuole, senza che muri o recinti ne frenino l’irruenza. Infine, mesi dopo, guardate nella sua tana: non vi troverete cuccioli, ma un popolo di uomini liberi come il vento, cristallini come l’acqua e fieri come il loro padre dal pelo azzurro. Leggenda vuole che i mongoli siano nati così, all’alba della storia.
Con Gengis Khan, da Karkhorin verso il mondo
Nessuno sa dire quanto tempo è passato da allora: tanto, comunque. Ma in Mongolia giurano che il lupo-capostipite è tuttora vivo: non si fa vedere, però di tanto in tanto si reincarna in forma umana e prende la guida del suo popolo. L’ultima volta accadde più di otto secoli fa con un pastore di nome Temujin, passato alla storia come Gengis Khan. Sotto la sua guida i mongoli invasero la Cina, dilagarono in tutta l’Asia Centrale e in mezza Europa. Era la prima volta che dei nomadi conquistavano un impero (e fu pure l’ultima).
Oggi la valle del lupo azzurro si chiama Orkhon. Ampia, erbosa, cinta da fitti lariceti, si dipana a sud-ovest di Karkhorin, l’ex capitale mongola che Gengis Khan volle sontuosa e che oggi è ridotta a un paesone da Far West: saloon in centro, mandrie fuori porta e un intenso via-vai di uomini a cavallo che fanno i pendolari tra i pascoli del bestiame e i locali da ritrovo. Guardatela bene dalle colline intorno: oggi Karkhorin fa tenerezza, ma nel tardo Medio Evo, quando tutti la chiamavano Karakorum, incuteva soggezione a metà del mondo.
Una capitale degna dei regni conquistati
Non era solo una questione di forza militare: Temujin e i suoi eredi portarono in Mongolia i migliori architetti e artisti che avevano trovato in Occidente, perché la loro capitale non doveva invidiare nulla a quelle altrui. E, già che erano in ballo, portarono anche teologi di varie fedi, perché ai mongoli non doveva mancare alcun dio: “Ci sono dodici templi di idolatri di varie nazioni, due moschee dove viene predicata la legge di Maometto, e una chiesa cristiana” scrisse stupefatto Guglielmo di Rubruck, un monaco che arrivò qui nel lontano 1254.
Dov’è finito quell’ecumenico Vaticano d’Oriente? Dove sono le mura dell’ex-capitale? Dov’è il Tumen Angalan (leggi Palazzo della Pace Terrena) la reggia da cui i khan dirigevano il mondo, seduti su un trono di pelle di pantera? Dove la fontana d’argento a forma di albero, che secondo il racconto di alcuni viaggiatori celebrava l’opulenza dei khan, buttando dai rubinetti vino di mirtilli e latte di cavalla? Dove si sono rintanate, infine, certe tartarughe di pietra, simboli di immortalità, che facevano la guardia alle porte della capitale?
Terra di nomadi perenni
Risposta onnicomprensiva: quasi tutto sta alla periferia della città moderna, inglobato nell’Erdene Zuu, un complesso di quattordici templi buddhisti che ricicla appunto le macerie di Karakorum. Proprio così: macerie. Infatti la potente capitale dei khan, incubo del resto del mondo, ebbe vita e gloria breve: nel 1388, appena centosessantun anni dopo la morte di Temujin, fu rasa al suolo da invasori provenienti dalla Manciuria. E i mongoli tornarono a essere ciò che erano sempre stati: pastori nomadi, ricchi di mandrie e villaggi di tende, ma privi di vere città.
Da allora a oggi poco è cambiato. Infatti la vera Mongolia non è a Karkhorin. E tanto meno è a Ulaan Baatar, la confusa capitale moderna, dove si concentra quasi un milione di persone, circa un terzo della popolazione del Paese. La vera Mongolia, unico Stato al mondo dove i nomadi sono tuttora in maggioranza (poco meno di due terzi degli abitanti) si vede meglio nella valle che fu del lupo azzurro, traboccante di cavalli bradi e punteggiata di “ger”, le tipiche tende candide a pianta circolare, con “muri” di feltro e “pavimenti” di stuoie.
Le descrizioni di Rubruck
Lassù, dal Medio Evo a oggi, è cambiato così poco che la miglior guida per viaggiare fuori da Karkhorin e da Ulaan Baatar resta tuttora il diario di viaggio scritto settecentocinquantanni fa da Guglielmo di Rubruck. In quel testo c’è, per esempio, una puntuale descrizione delle ger: “I mongoli – scriveva il nostro frate – pongono la casa in cui dormono su una base circolare costruita con rami intrecciati fra loro”. E più avanti: “Coprono la casa con panno bianco, che spesso impregnano di calce, terra bianca o polvere d’osso, perché sia ancor più bianco”.
Anche l’allevamento brado, principale risorsa economica dei nomadi, è rimasto tale e quale: “Mi stupivo della grande quantità di mandrie di buoi e di cavalli e di greggi di pecore – annotava frate Guglielmo – Tuttavia vedevo pochi uomini che governavano queste mandrie”. Unico dettaglio impreciso: in realtà i “buoi” erano (e sono) gli yak, arruffati bovini dall’aspetto grintoso ma dal carattere timido, che popolano i prati di montagna. Il resto è tutto esatto: a volte in Mongolia si viaggia per giorni interi vedendo più bestiame brado che uomini.
Persino cibi e bevande sono immutati dai tempi di Guglielmo. Tra i primi spiccano i latticini, in particolare l’ “aarul”, un formaggio ottenuto “facendo inacidire e diventare più acre possibile il latte che resta dopo aver fatto il burro”; e poi “seccandolo al sole finché diventa duro come il ferro”. Quanto alle bevande, la più comune era ed è il latte di giumenta fermentato, alias “comos”, che “pizzica la lingua come il vino di acini acerbi”. In una tenda, aarul e comos sono tuttora le prime offerte di benvenuto dei padroni di casa agli ospiti.
Natura integra
Ancor più immutati delle ger e del comos sono i paesaggi che fanno da sfondo alla vita dei pronipoti del lupo azzurro. La scarsa densità umana, l’assenza quasi totale di agricoltura (e tanto più di industria) ha fatto sì che la natura mongola sia tra le meglio conservate del pianeta. E tra le più varie: da sud a nord si passa dalle dune del Gobi a sterminate praterie trapunte di anemoni (in basso) e stelle alpine (in quota) sino a fitte foreste simil-siberiane. A ovest, poi, si elevano gli Altai, monti di oltre quattromila metri, coperti da nevi perenni.
In ognuno di questi settori i birdwatchers e in generale gli appassionati di natura trovano pane per i loro denti: soprattutto nella fascia centrale, tutta steppe e praterie, dove razzolano otarde, atterrano gru e volteggiano rapaci, numerosi come i piccioni in piazza San Marco. Osservare gli uccelli è gioco facile; più raro è avvistare mammiferi di grossa taglia, carnivori compresi (orsi a sud, lupi più a nord, leopardi delle nevi sugli Altai) che ci sono davvero, ma se ne stanno ben nascosti, lontani dall’uomo, predatore talvolta pericoloso.
Bracconaggio, male “moderno”
Da qualche tempo “talvolta” vuol dire spesso, perché dall’estero (soprattutto dalla Cina e dai Paesi del Golfo) cresce la domanda di “prodotti” ben pagati, che arricchiscono i bracconieri ma impoveriscono il patrimonio naturale del Paese: gli arabi importano dalla Mongolia pulcini di rapaci, destinati ai falconieri, mentre i cinesi fanno man bassa di presunti medicamenti ricavati da orsi e leopardi. Così, grazie alla spietata legge del mercato, negli ultimi anni ben ventotto mammiferi e cinquantanove uccelli sono finiti nella lista ufficiale delle specie in pericolo.
Peccato, perché la cultura locale, intrisa di animismo, sarebbe quanto mai rispettosa della natura. Per capirlo basta guardare gli stivali tradizionali mongoli, che hanno punte rivolte in su per limitare il calpestio del suolo e quindi il rischio di schiacciare insetti. Oppure basta notare certi onnipresenti mucchi di sassi, detti “ovoo”, che si incontrano lontano dai centri abitati: ornati da sciarpe azzurre e dotati di piccole offerte, quei cumuli sono ex-voto che i pastori lasciano dove ritengono che viva qualche spirito della natura degno di omaggio.
Mongolia “vera”. Per quanto, ancora?
Questa visione incantata del mondo, che porta a salvare gli insetti e a venerare gli spiriti di sorgenti, boschi e cascate, oggi rischia di essere spazzata via da un invasore più temibile degli antichi manciù: l’impatto col mondo esterno, che ormai si fa sentire anche nelle ger più sperdute, spesso dotate di televisori alimentati da pannelli solari. L’impressione è che per vedere la “vera” Mongolia ci si debba affrettare: il bombardamento via etere di valori estranei può azzerare nel giro di una generazione una cultura rimasta immutata per secoli.
Poco fuori Karkhorin, su un’altura, c’è l’unica sopravvissuta fra le tartarughe di pietra che presidiavano le porte dell’antica Karakorum. Chi l’abbia portata lassù, non si sa; ma la posizione è felice: da quel belvedere sembra che il rettile faccia la guardia sia alla città che ai pascoli dei dintorni, per proteggere entrambi da eventuali nuovi nemici. Dicono che sulla collina ogni tanto passi a trovarla un vecchio lupo dal pelo azzurro, improbabile come i sogni e le favole. Ma i mongoli che affermano di averlo visto sono più rari di un tempo.
(Si ringrazia il tour operator Kel 12 che ci ha fornito le immagini per illustrare l’articolo)
Un popolo senza cognomi, anzi con due
Fino a quattro anni fa i mongoli non avevano cognomi. O meglio: solo poche famiglie di notabili ne erano dotate, e solo dagli Anni Ottanta, gli ultimi del comunismo. Poi una legge statale, varata nel ’99 ma entrata in vigore nel 2004, impose a tutti di adottarne uno, per evitare confusioni e limitare le omonimie. Ma la stragrande maggioranza dei “senza cognome” si precipitò a farsi registrare come Borjigin o come Sansar, col risultato che i casi di omonimia restarono quasi invariati. Ma perché quei due cognomi avevano riscosso tanto successo? Perché entrambi ricordavano eroi nazionali. Borjigin, infatti, era il nome del clan tribale di cui faceva parte Gengis Khan. E Sansar (cosmo) ricordava l’avventura di Judgerdimidiyn Gurragcha, il primo e unico mongolo lanciato nello spazio (nel 1981, a bordo della navicella sovietica Soyuz 39) diventato poi ministro della Difesa.
Libri e Film sulla Mongolia
Le notizie sulla Mongolia antica ci vengono da un libro cinese del Duecento, “La storia segreta dei mongoli”, che narra fra l’altro di Gengis Khan. Il testo è stato tradotto in italiano nel 2000 (a cura di Segrej Kozin, ed. Tea).
“Viaggio nell’impero dei mongoli” (ed. Marietti) è la traduzione italiana del resoconto di viaggio di Guglielmo di Rubruck, il frate fiammingo che nel 1253-54 attraversò l’Asia per visitare Karakorum, la capitale dei khan.
Un irlandese ripete ai nostri giorni il viaggio di Guglielmo di Rubruck. Il risultato è un libro-reportage sull’Asia di ieri e di oggi: “L’impero di Gengis Khan – A cavallo tra i nomadi” di Stanley Steward (ed. Tci).
In Mongolia sono stati girati molti film. Il più importante è “Urga, territorio d’amore” del russo Nikita Michalkov, Leone d’Oro a Venezia nel ‘91: una parabola sui traumi che il progresso causa ai nomadi.
Notizie utili
Info Link
: https://www.mongolia.it/
Documenti – Passaporto più visto, che si ottiene al Consolato mongolo (via Vignasse 21, Sant’Antonino di Susa, Torino, telefono 0119634045, www.consolatomongolia.it).
Dogana – Ammesso importare due litri di vino (o tre di birra o uno di superalcolici) e 200 sigarette. Vietato esportare fossili, oggetti antichi e parti di animali protetti (per esempio pellicce). Chi sgarra rischia cinque anni di carcere.
Fuso orario – Di norma sette ore più che in Italia; solo sei nelle province occidentali.
Lingua – Mongolo (ufficiale), russo (diffuso), inglese (solo negli ambienti turistici).
Clima – Continentale con estati fresche in montagna ma calde nel Gobi (fino a 40°) e con inverni gelidi (fino a -40°); generalmente secco (260 giorni di sole all’anno); le poche piogge sono in estate.
Salute – Nessuna vaccinazione è obbligatoria; si consigliano però quelle contro l’epatite (A e B) il tetano ed eventualmente la rabbia (previa consultazione col medico).