Venerdì 26 Aprile 2024 - Anno XXII

Gibuti, fra natura e Islam

Terra infuocata, arida, dalle tinte violente. Persino l’azzurro del mare avverte, col variare delle tonalità, il calore e la pressione che si sprigionano dalle viscere di un continente che si muove. Impercettibilmente, ma si muove…

Gibuti, fra natura e Islam
Gibuti baia-di-Ghoubet-Al-Kharab

Sembra davvero la protuberanza ossea di quel grosso, stizzoso e debordante animale che risponde al nome di rinoceronte, la punta somala dell’Africa Orientale che si protende nell’Oceano Indiano, quasi a cercare di trafiggere l’isola yemenita di Soqotra. Non per niente la sagoma geografica ha dato, per estensione, il nome a questa vasta porzione di continente nero: Corno d’Africa. Ne fanno parte l’Eritrea, l’Etiopia, il Somaliland ex protettorato britannico, la Somalia dove un tempo gli italiani erano di casa, la cui parte settentrionale (Puntland, famigerata base navale dei moderni predoni del mare) rivendica una propria autonomia, tra mille contrasti e faide interne. Resta la piccola Gibuti (République de Djibouti) un tempo colonia francese. Come siano andate le cose alla fine del periodo coloniale, in queste terre selvagge e bellissime, è storia nota. Regimi ufficialmente democratici ma il più delle volte dittature camuffate, lotte intestine, guerre e paci guerreggiate, banditismo, carestie, scontri tribali, presenze e influenze straniere non proprio disinteressate. Il tutto, sulla pelle di popolazioni poverissime. Lungo la strada che dalla cittadina etiope di Diredaua conduce al confine con Gibuti e in quella che porta a Berbera in Somaliland, rimangono nel deserto – a testimonianza di anni bui e prepotenti – carcasse di carri armati russi, di armi cubane e chissà di quali altri paesi “terzi”. Attorno alla ruggine e alle vernici scolorite dal sole, vagolano greggi di capre, dromedari ossuti e uomini Afar armati di khalasnikov.

Arabia e Africa, “scontri” sotterranei

Veduta del golfo di Tadjourah
Veduta del golfo di Tadjourah

Non sono scosse devastanti quelle telluriche di Gibuti, ma frequenti e fastidiose, si. La gente ci ha fatto l’abitudine e ne conosce l’origine sin dai banchi di scuola. Il territorio poggia sulle faglie sotterranee contrapposte d’Africa e d’Arabia, che slittano una verso l’altra per circa due centimetri l’anno. Il cambiamento fisico epocale (quasi una fine del mondo) avverrà quando la forza dello scontro squarcerà la terra e il mare riempirà ogni cosa, com’era accaduto nella notte dei tempi. Ma ciò che si vede oggi non dà spazio a pensieri catastrofici. Poco all’interno della raccolta baia di Ghoubet-Al-Kharab, che comunica col più ampio golfo di Tadjourah, la bellezza dei luoghi sprigiona una forza primordiale. Poi, dove l’acqua finisce, ecco la meraviglia di una terra vulcanica dai cento colori: nero quello dominante, quindi una vasta gamma di gialli, ocra, zolfo spento. Qui, nel 1978, è nato in pochi giorni un vulcano alto una quarantina di metri, studiato da Haroun Tazieff, il famoso vulcanologo francese scomparso, e da lui battezzato col nome di Ardoukoba, termine Afar che significa “luogo in pendenza, in discesa”. In discesa verso dove? Naturalmente verso l’inferno in terra, l’inquietante lago Assal, situato centocinquantatre metri sotto il livello del mare; la terza depressione mondiale dopo quelle del Mar Morto e del lago di Tiberiade.

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Un lago dai colori cangianti

Le sfumature cerulee del lago Assal
Le sfumature cerulee del lago Assal

Ciò non toglie che il lago Assal sia una vera e propria meraviglia della natura. Sotto un sole che spacca le pietre e annebbia la vista, la superficie della porzione “liquida” del lago cambia colore secondo le ore del giorno: blu profondo, azzurro intenso, quindi cilestrino; verdi vivi e spenti, bianco lattiginoso, lilla e poi violaceo al tramonto; tinte che contrastano col biancore perenne e assoluto della parte salina. L’acqua, per effetto della fortissima evaporazione, è una crosta compatta di sale e gesso; in prossimità della riva le concrezioni assumono forme fantastiche: mini-sculture ora aguzze e seghettate, ora rotondeggianti e sovrapposte. Ai bordi del lago, assieme ai camion che fanno la spola con la capitale trasportando il sale raccolto, ci sono torme di ragazzini Afar che vendono oggetti scolpiti: piccoli camion, scheletri di teste di capra, palline per condire il cibo, scaglie di minerali multicolori ottenute spaccando le bocce di sale. Anche il non lontano lago Abbé, condiviso con l’Etiopia, ha le sue strabilianti caratteristiche geologiche. Enormi camini di roccia calcarea ai cui piedi, nella stagione fresca, esplodono migliaia di fiori del deserto, dalla vita effimera ma dai colori intensi.

Gibuti, sentinella del Bab-El-Mandeb

Piazza 27 giungo 1977, meglio conosciuta come piazza Menelik
Piazza 27 giungo 1977, meglio conosciuta come piazza Menelik

Il nome dello stretto che in questo punto quasi “strozza” le acque del Mar Rosso deriva, secondo una leggenda araba, dalle lacrime versate per la separazione dell’Africa dall’Asia. Secondo altre fonti il nome è dovuto alla pericolosità delle acque per la navigazione. E pericolose queste acque lo sono per davvero, anche ai nostri giorni, perché infestate da predoni (oggi) tecnologicamente attrezzati! Gibuti è da sempre luogo d’incontro per genti africane, europee (specie francesi) e arabe; lo Yemen è vicinissimo, al di là del mare. La capitale che ha dato il nome alla piccola repubblica, la cui superficie è di poco inferiore a quella della Lombardia, è una cittadina gradevole e dai forti contrasti. Le costruzioni moderne prendono via via il posto di quelle, in verità un po’ trascurate e in qualche caso fatiscenti, del periodo coloniale. La raccolta e ombrosa piazza 27 giungo 1977 (giorno dell’indipendenza) che tutti continuano a chiamare col vecchio nome Menelik, è il cuore di Gibuti. Oltre ad alcuni edifici con arcate d’ispirazione moresca, ospita hotel, caffè, ristoranti e negozi di souvenir. Un’altra piazza viva e movimentata è quella dedicata al poeta Mahamoud Harbi (un tempo piazza Rimbaud) dominata dal minareto giallo-verdino della grande Moschea.

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Cambiavalute, “Qat” e bandiere nel verde 

Gibuti, fra natura e Islam
Gibuti la-Moschea

Nelle numerose stradine che circondano la piazza, botteghe, chioschi, mercati e una “banca” all’aperto sempre in funzione; sono le matrone gibutine che cambiano la valuta straniera stando sedute agli angoli delle strade; ci pensano quelli di famiglia a procurare i clienti! Verso la fine della giornata, la vita rallenta: è l’ora del “qat” (qui pronunciato “ciàt”) l’erba da masticare che obnubila la mente e insieme dà euforia; l’arrivo dell’aereo che proviene da Diredaua, carico di foglie, è un avvenimento collettivo. Spostandosi verso la parte nord della città, è possibile misurare l’ampiezza del porto e le gigantesche strutture per il carico e lo scarico delle merci. Il Palazzo Presidenziale è poco discosto, all’interno, verso il Plateau du Serpent, un’oasi di frescura che il clima di Gibuti fa ancor più apprezzare. La frescura dell’ambiente, propiziata dall’enorme macchia verde dei giardini del presidente, dà luogo ad un piacevole contrasto con l’enorme “drapeau” (bandiera) di Gibuti che campeggia dal posto di guardia dell’ingresso. Una foto ricordo? Avvicinare all’occhio la macchina fotografica e inquadrare, assieme alla bandiera, un fucile spianato, impone di accantonare seduta stante il progetto “souvenir”.

Nel mare Islam, la cattedrale cattolica

Gibuti La facciata marmorea della Cattedrale Cattolica di Nostra-Signora Madre del Buon Pastore
La facciata marmorea della Cattedrale Cattolica di Nostra-Signora Madre del Buon Pastore

In uno dei viali più belli della capitale (rue de la République) ha sede la Cattedrale Cattolica di Nostra-Signora Madre del Buon Pastore. È una chiesa alta, moderna, la cui facciata ellittica di pietre grigie è esaltata da un’altissima croce. Costruita a partire dall’anno 1957 dall’architetto alsaziano Joseph Muller, sullo spazio occupato un tempo dalla chiesa di Santa Giovanna d’Arco, è stata consacrata il 12 gennaio del 1964 dal cardinale Eugène Tisserant, decano del Sacro Collegio dei cardinali. Da maggio a settembre è caldissimo, a Gibuti. In giugno e luglio si possono toccare anche i 45°. Tuttavia, lo stabile che fiancheggia la chiesa è abbastanza fresco, malgrado i ventilatori a pale siano vecchissimi. Ed è qui che avviene l’incontro con l’attuale vescovo di Gibuti, Padre Giorgio Bertin.

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