Venerdì 22 Novembre 2024 - Anno XXII

Libia, l’album dei cacciatori

Libia Nomadi dell'Acacus foto Christina Nöbauer

La giraffa cammina tra le acacie. Il leone si avventa sulle gazzelle. L’elefante barrisce davanti al predatore. C’è un mondo incantato, pastorale-antico, disegnato con lo stupore e l’ingenuità di un bambino, tra le rocce dell’Acacus

Tuareg osserva il tramonto sull'Akakus foto giomodica
Tuareg osserva il tramonto sull’Akakus foto giomodica

Libia del sudovest. Uno “storyboard” che colpisce, come quando si vanno a vedere i vecchi album di fotografie e si scopre che il mondo è cambiato, intorno. I cacciatori del paleolitico dovevano avere foreste e savane a disposizione, e i “quaderni” su cui raccontarli. Oggi c’è la sabbia. Bianca, gialla, ocra, rossa, nera. Un universo semovente, che riesce a compattarsi in dune e avvallamenti, in piante e cespugli. È come quando si guarda un tessuto al microscopio elettronico, le sue stropicciature, le sue curve, le concavità e le convessità.
La natura, vale a dire la materia “silicio” con metalli vari, più il regime dei venti, si modella in modo analogo, nei tessuti viventi come nei tessuti geologici. Poi, la “materia grigia” ci mette il resto. Il resto è la suggestione di un mondo che pare fuori dai mondi praticati. Dove l’assenza di segni acuisce tutti i sensi, costringe a vedere, a sentire. Annulla i punti di riferimento visivi, relativizzando la percezione.

Dalla Libia attuale, al grande passato della “natura”

Akakus foto Wikipedia
Akakus foto Wikipedia

In libia poi c’è la storia, dei Tuareg e delle loro carovane, di Erodoto che parla di “Libi agricoltori”, di Roma ai tempi della Numidia (di Giugurta e Sant’Agostino) e dell’ “Africa Nova”. E di Roma alla ricerca della “Quarta Sponda” (1912) quando con illusione coloniale si cantava: “Tripoli, bel suol d’amore, ti giunga dolce questa mia canzon, sventoli il Tricolore…”. E poi tutto il resto, che si chiama Legione Straniera, guerre, petrolio, Gheddafi e la Rivoluzione Verde. Ma qui, come dice il più famoso dei film, è solo “Via col vento”. Qui, in Libia, resta la sabbia, materia precaria, come il mondo da cui veniamo. E il vento, essenza animata, forza primordiale. Non pensate a un terreno fatto di dune e basta. C’è la varietà del deserto. E “il deserto non si racconta, si vive” come diceva lo scrittore nigeriano Mano Dayak, portavoce dei Tuareg (e aiutante di Bertolucci per “Il tè nel deserto”).
L’Acacus, il Parco Nazionale del Tadrart Acacus è protetto dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità (1985) per le sua geologia e la sua storia, per i fiumi fossili, le rocce erose dalla fantasia del caso, le dune policromatiche e sinuose, le pitture preistoriche negli anfratti (si dipinge protetti, dal sole e dagli animali) i segni della presenza umana nell’altopiano pietroso del Messak Settafet, quando il Sahara non meritava quel nome, perché era una “valle verde” (otto, diecimila anni fa).

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Pietre, sabbie, rocce: sfrenate fantasie

Incisioni rupestri foto Luca Galuzzi
Incisioni rupestri foto Luca Galuzzi

Vale la pena ascoltare l’Unesco: “Alla frontiera con il Tassili n’Ajjer algerino, sito Unesco, questo massiccio roccioso è ricco di migliaia di pitture rupestri, da dodicimila anni prima di Cristo al primo secolo dell’era cristiana. Queste pitture riflettono le profonde modificazioni della flora e della fauna e i diversi modi di vita che si sono succeduti in questa parte del Sahara”.
È un altopiano di arenaria, scurita in superficie da ossidazioni di manganese, attraversato da “fiumi fossili” che hanno scavato canyon profondi, per poi scomparire. Anche il vento ha scavato, modellando secondo i capricci delle correnti la pietra, dando vita a un “bosco” fantastico, in cui il gioco è riconoscere per analogia forme umane o animali, o profili o geometrie. Colonne, archi, gallerie, modanature, rientranze e aggetti, balconi e grotte, scalini e buchi, magari nel pieno del vuoto intorno.
Sembrano segnali, messi sulla strada del viandante, moniti o benedizioni, ripari o pericoli, a seconda dello spirito di chi ci arriva. Ad animare il surreale ci pensano delle piccole zucche tonde, che sembrano spuntare dal nulla e rotolare nel nulla. Si tratta di “Citrullus colocinthis”, i cui frutti sferici vagano per il deserto cercando un luogo favorevole per far attecchire i semi. E quale metafora migliore per raccontare dell’uomo che vaga nel deserto (o nella vita?), come un “citrullo”, a cercare di lasciare un piccolo segno di sé?

Fiori e arbusti in lotta con l’acqua che non c’è

Libia, l’album dei cacciatori

Ad accrescere il surreale ci sono i “wadi”. Vale a dire i fiumi che fiumi non sono. Si tratta di tracce di acqua piovana che corre, non di bacini. Dato che l’acqua evapora, è come se il fiume (come entità) avesse deciso di non farla scorrere, prenotando però il luogo di futuro scorrimento. Difficile da accettare. E, difatti, non lo accettano le asclepiadacee con grandi frutti e fiori viola, le “Calotropis procera”, qui chiamate “kranka”, che attingono alle riserve, rimanendo verdi nella stagione secca e sopravvivendo per decenni. Intorno ai fiumi-non-fiumi, ci sono comunque i “sigilli” della loro presenza, vale a dire le acacie (Acacia tortilis) e i cespugli di graminacee (Panicum turgidum) e, talvolta, gli arbusti alti (Leptadenia pyrothecnica) e gli arbusti bassi (Zilla spinosa).

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Sulla via per l’Acacus

Libia, l’album dei cacciatori

Ma andiamo con ordine. Si arriva a Sebha con un volo da Tripoli. Da qui, con una Toyota 5000 adatta al deserto, si prosegue per il Campo tendato di Tikarkibda (e poi per quello di Oubari). Un campo tendato è qualcosa da vivere. Le tende sono disposte in file, lasciandone alcune, comuni per i pasti o il tè, al centro. Intorno ci sono le dune. Dune alte, di sabbia finissima, che digradano l’una sull’altra, inventando geometrie curvilinee. La cosa migliore, dopo una doccia e un pasto, è salire verso il tramonto lungo il crinale della duna, su, su, fino alla cima, che non è nient’altro che un baffo di sabbia, il più debole, il più mobile. Un piccolo confine verso l’altro versante, spazzolato dal vento. Da quassù, nella solitudine estrema, non resta che allargare lo sguardo, cercare punti fissi, o lasciarsi trasportare dall’indefinito del deserto.

Sulle dune del deserto foto Bashar Shglila
Sulle dune del deserto foto Bashar Shglila

In ogni caso, nel deserto della Libia, con i colori che sfumano, che si sovrappongono, che danno spicchi d’ombra, con il sole che se ne va e il vento leggero che si solleva, si entra nella dimensione elementare e nello stesso tempo spirituale, delle “terre nomadi”. Se poi si vuole qualcosa di fisico, di intensamente corporeo, basta correre in discesa o scivolare sulle dune, una sensazione che ricorda le grandi sciate in neve fresca. Poi, con il buio, le stelle vengono a trovarti. Bisogna anche saper osservare. Qui, la natura è “allo stato puro”. Come diceva Pierre Loti, esteta del viaggio: “Uscire dalla tenda e trovarsi davanti allo splendore di un nuovo mattino… riempirsi di luce e di spazio…conoscere la straordinaria ebbrezza di vivere, solamente…”. Ben detto, vecchio Pierre. Vivere, solamente. Percependo per intero l’azione del sole, che riscalda fino alla pazzia e raffredda con la sua assenza.

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Graffiti, la “storia” incisa sulle pietre

La grotta di Uan Amil
La grotta di Uan Amil

I giorni successivi si vagola per il deserto, apparentemente a caso. Sono le guide tuareg a tenere in mano la situazione, cercando passaggi che si vedono all’ultimo momento, corridoi impossibili, giochi di bilancia tra salita e discesa di un terreno. È qui che si vedono i graffiti.
La necessità di descrivere la meraviglia che si aveva davanti, magari vissuta solo come “abbondanza” di cibo. In realtà non è un “libro” scritto in un solo tempo, ma un’opera collettiva fatta in millenni diversi. Ma che il tempo ripiana, nello stile e nel significato. Wadi Teshuinat, nella parte centrale del massiccio, si estende fino a perdersi, dopo sessanta chilometri, nelle sabbie dell’erg di Uan Kaza.
Al centro del wadi si ergono due grandi roccioni dai fianchi ripidissimi: In Farden, Tin Tarharit e Uan Amil, sono i siti di arte rupestre con i dipinti meglio conservati. La grotta di Uan Amil presenta un momento di passaggio della pittura, dalle scene isolate a un racconto coerente.
Per esempio, narrando una battaglia, con le scene di preparazione. Anche la parete di Tin Tabora, affluente del wadi Auis, è molto interessante. Cammelli, segni alfabetici tuareg, una figura metà uomo e metà animale, con un grande fallo.

Tuareg del duemila: un po’ nomadi, un po’ mercanti

Il lago di Umm al Maa
Il lago di Umm al Maa

Poi si costeggiano le enormi dune di Uan Kaza e si va verso Awinat. Qui c’è il mondo delle dune, il Ramlat Dawada, con i laghi di Umm al Maa, Gabroun, Mandara (asciutto). Bacini d’acqua di cinquecento-seicento metri di lunghezza, circondati da palme, tamerici, eucalipti. E da Tuareg, che fanno mercato per i visitatori. Ormai, i mercati, in tutto il mondo, sono contaminati. Anche qui, si trovano oggetti di provenienza diversa e i mercanti conoscono non solo le tecniche di vendita, ma anche quelle di transazione internazionale, le banche e le valute, internet e i cellulari. Bisogna quindi prendere il tutto con la dovuta cautela, non essere troppo disillusi, ma neanche troppo illusi. E ricordare come, da secoli, la base dello scambio sia la contrattazione. Serrata. Vendere e comprare sono riti, oltre che affari.

Tuareg, mercanti o guide nel deserto
Tuareg, mercanti o guide nel deserto

Resta, dei Tuareg, mercanti o guide, l’aspetto. Si chiama “tagelmust” il turbante degli “uomini blu”. Una fascia di cotone di dieci metri, tinta di indaco e avvolta su collo e testa, in modo da coprire dal sole e dal vento. Con la possibilità, come in un’antica armatura, di coprire o scoprire la bocca e il naso. Il colore indaco è considerato il più nobile e il cotone, che si scolora al sole, viene continuamente immerso nel colore in polvere.
In questo modo anche la pelle del viso si colora di blu, dando consistenza a quel modo di chiamare i tuareg. Che vengono anche chiamati “Kel Tagelmust”, cioè “il popolo del velo”.
Curiosamente, però, sono gli uomini i velati (e le donne no) e possono mostrare il viso solo ai famigliari, in un gioco degli specchi con le abitudini arabe. Allevano dromedari e vivono in villaggi tendati.
Poi, il tempo finisce. Non resta che tornare a Sebha, e da lì a Tripoli. Con in mente le parole romantiche che ogni occidentale sente sue al contatto con il grande erg: “Ci siamo nutriti della magia delle sabbie”. Disse Antoine de Saint Exupéry.
Prima di intraprendere un viaggio consultare il sito della Farnesina:  http://www.viaggiaresicuri.it

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