Si estende su quella porzione di Sardegna meno nota della roboante costa Smeralda, sebbene più seducente nel suo proporsi “selvaggio”.
Si sviluppa nella parte sud occidentale dell’isola, in un abbraccio virtuale che corre dalla valle del fiume Cixerri fino al golfo di Palmas. È la regione del Sulcis, dai remoti natali, che offre al visitatore un autentico viaggio a ritroso nel tempo. Per raggiungerla basta lasciarsi alle spalle Cagliari, imboccare la statale 130 deviando, dopo Sanluri, in direzione Villacidro-Siliqua.
Abbandonati i grovigli urbani e i rumori cittadini, si raggiungerà uno scenario dove le bellezze naturali si mescolano e si confondono alle vestigia storiche. Qui, non nuraghi ma ciminiere, raccontano il passato “archeologico” che ha rappresentato una delle tappe fondamentali della storia sarda. Un passato fatto di fabbriche e operai in tuta blu. Più che un passato un’archeologia: naturalmente industriale.
Tracce pisane e aragonesi
Si chiamava Villa di Chiesa Pisana ed era citata come uno dei più significativi centri di età medievale dell’isola. Per una curiosa nemesi storica, quella che un tempo era una località brulla e dedita al lavoro, si è trasformata in una destinazione ricercata del nuovo turismo sardo.
Il nome attuale le deriva dagli spagnoli che nel 1479, favorevolmente colpiti dalla concentrazione di chiese e cattedrali sparse in un territorio così circoscritto, le donano l’appellativo di Iglesias.
Oggi il capoluogo del Sulcis si affaccia sulla campagna come una graziosa cittadina il cui nobile passato è testimoniato da varie presenze monumentali di notevole interesse. Un tempo rinomata realtà economico-sociale, grazie alla fiorente attività mineraria, la città si snoda intorno a un centro storico dove passato remoto e attualità si mescolano felicemente.
Iglesias dalle molte chiese
Incipit ed epilogo di un percorso all’interno di Iglesias sono Piazza Quintino Sella e Piazza Oberdan. Percorrendo l’animato Corso Matteotti si raggiunge piazza Lamarmora, già centro della città murata. Qui si affacciano, racchiuse all’interno di una ideale cornice, il Municipio ottocentesco, il caratteristico palazzo dell’Episcopio, eretto sul finire del Settecento in stile barocco spagnolo; oltre a vari altri palazzi ottocenteschi e la massiccia mole della cattedrale di Santa Chiara, voluta da Guido della Gherardesca, il cui impianto originario risale all’anno 1288. Sono poche, però, le testimonianze di questo periodo; all’epoca romanica appartengono invece la facciata in pietra a vista, con decorazioni aggettanti e il campanile.
Poco distante, al termine della Via Satta, si staglia la chiesa di san Francesco, dall’interessante architettura a capanna della facciata. Di fascino austero, divisa all’interno da tre navate, viene modificata nel Quattrocento sulle basi di un preesistente edificio romanico. Ulteriori modifiche si aggiungono nel Cinquecento, con l’erezione di cappelle laterali e le coperture in travature lignee, fra le ultime modifiche apportate.
Il Castello Salvaterra e le mura aragonesi
A guisa di “vedetta”, sul lato orientale della città, si ergono le mura aragonesi che nel secolo XIV sostituiscono quelle pisane. Il castello di Salvaterra le domina dal colle Altai, svettando da un’altezza di quasi trecento metri. Come un grifone, destinato a una fedeltà assoluta al suo maniero. Passato e presente si fondono giocando a rimpiattino nelle pittoresche viuzze del quartiere di San Guantino, che sovrasta dall’alto la città di Iglesias.
Qui le strette stradine non provocano al visitatore un senso di angustia. I balconi antichi, affacciati su vicoli chiassosi, impreziosiscono invece l’orizzonte dove l’odore del pane appena sfornato si mescola a quello dei “su mustazzeddu”, i tradizionali dolci sardi.
La tradizione continua anche nella periferia occidentale di Iglesias. Gli odori dei “malloreddus” lasciano qui spazio ai “ricordi” degli odori del metallo lavorato.
Nel “cuore” delle miniere
Il viaggio nel recente passato dell’archeologia industriale comincia percorrendo l’arteria principale in direzione di Sant’Antioco. Qui, come la salma di un gigante di pietra abbandonato nella campagna sarda, giace il grandioso complesso di edifici della miniera di Monteponi, una delle più importanti dell’isola, inattiva dai primi anni Ottanta del secolo da poco terminato.
“Gli edifici industriali e le abitazioni intramezzate da boschetti e giardini ricoprono la pendice del monte, formando un quadro attraente e pieno di vita.
La sommità del monte è divenuta un immenso scavo di circa sei ettari di estensione a forma di cratere; nell’interno, sino al livello del mare, si sviluppano circa settanta chilometri di gallerie ampie e ben areate; il tutto è animato dalla presenza di quasi duemila persone e da numerosi motori a vapore, a gas ed elettrici”. Questa la descrizione fatta nel 1907 dall’Ingegnere Erminio Ferrarsi, cui si deve la costruzione di nuove “laverie” meccaniche, l’apertura della galleria Umberto I e tutta una serie di opere assistenziali, tra cui l’asilo e la ristrutturazione dell’ospedale.
Edifici industriali di interesse storico
Da allora le modifiche effettuate, al netto dei duemila abitanti oggi ridotti a poche unità, sono relative. Dell’impianto restano decine di edifici industriali di grande interesse storico e architettonico, tra i quali si distingue il palazzo rappresentativo della “Direzione Bellavista”; il “Pozzo Vittorio Emanuele” e il “Pozzo Sella”, restano indiscutibilmente i più importanti della miniera.
Il primo è un tunnel che si spinge fino a cento metri sotto terra, scavato nel 1863 per essere destinato al trasporto dei minatori; il secondo, dedicato al parlamentare Quintino Sella, viene invece realizzato per ospitare le grandi pompe a vapore che dovevano agevolare l’eduzione delle acque sotterranee.
Sulcis, una terra scavata
La regione del Sulcis è costellata di miniere che si rincorrono lungo la strada verso Cagliari, dove si sfiora la miniera di Campo Pisano o verso ovest in direzione Sant’Antioco, dove si scorge la grande miniera di San Giovanni ancora parzialmente in attività, già nota ai pisani con il nome di monte Barlao. Nel 1855 l’ingegnere ungherese Keller ottiene il permesso di ricerca e la dichiarazione di “scoperta” della miniera, ceduta poi a una società inglese. Il periodo più florido coincide con la gestione della Pertusola Limited, che impianta una moderna laveria e un villaggio di minatori attiguo: Bindua.
Interna alla miniera di San Giovanni, la grotta di Santa Barbara, icona protettrice dei minatori. Scoperta durante lo scavo di un fornello, è attualmente ritenuta una delle più antiche in Europa.
Ciò che la rende particolarmente singolare sono i cristalli disposti a nido d’ape che costellano le pareti, rintracciabili anche nelle volte, mentre colonne di aragonite azzurra e sculture calcaree, danzano alternandosi ad enormi stalattiti. Da qui, attraverso i tornanti vorticosi tipici delle strade di montagna, si può salire fino a San Giorgio, distesa di colline metallifere alte in media trecento metri. Ancora qui, nella miniera omonima risalente alla fine dell’Ottocento, si avrà l’impressione di varcare le porte di un castello: un maniero medievale isolato sull’altopiano, la cui colonna sonora è il vento: sempre intenso e sferzante.
La sera del dì di festa
Ogni momento dell’anno è ideale per visitare questo francobollo di passato sardo.
Le festività si rincorrono numerose, sebbene le più importanti si tengano durante i mesi estivi. La seconda domenica di Luglio, fin dal 1735, si svolgono a cadenza annuale i riti dedicati alla Madonna delle Grazie per perpetuare il voto, da parte della popolazione iglesiente, di una grazia chiesta alla santa Vergine in occasione di una insolita calamità: una massiccia invasione di cavallette.
L’estate è foriera di eventi per la regione del Sulcis. Il 13 agosto il centro storico di Iglesias è attraversato da un corteo di figuranti in abiti medievali, corteo che trasforma le vie in un palcoscenico “en plein air”. A due giorni di distanza dalle celebrazioni in onore della Vergine, si tiene poi la processione dei candelieri in Cattedrale, nella quale ognuno ha diritto a un cero. Nel corso della festa di origine bizantina, i candelieri di legno, alti quattro metri, vengono trascinati per le vie del centro. Ognuno di questi rappresenta un’identità diversa: i quartieri storici, le corporazioni, i vignaioli, i lavoratori, gli artigiani e i mercanti, sfilano in un corteo tanto affascinante quanto solenne. A testimonianza di una regione che ha fatto della tradizione la sua ragion d’essere.