Venerdì 22 Novembre 2024 - Anno XXII

Verso l’America. Da Palos e dintorni

Colombo Le caravelle

Colombo e la sua genovesità “riscoperta”. Ma è da una certa Spagna che tutto ha avuto inizio. Questa è la testimonianza, discreta e commovente, dei luoghi e dei personaggi che hanno permesso all’Almirante di coronare il suo impossibile sogno

Colombo Cristoforo Colombo
Cristoforo Colombo

In occasione del Cinquecentesimo anniversario della Scoperta dell’America di Colombo, gli abitanti dell’andalusa Palos e del suo capoluogo di provincia, Huelva, si ritrovarono coinvolti in discussioni e polemiche generate da misteri e accuse che aumentavano d’importanza con l’avvicinarsi della commemorazione.
Chi fu il vero “sponsor” dell’intera vicenda? I Reyes Catolicos di Spagna o il pontefice Innocenzo VIII ? (è la tesi di Ruggero Marino in “Cristoforo Colombo e il papa tradito”, Newton Compton Editore).
La morte del Papa, pochi giorni prima della partenza di Colombo e l’elezione dello spagnolo Alessandro VI permisero, secondo Marino, il più grande caso di appropriazione indebita della Storia. Come se ciò non bastasse, non sarebbero da escludere avvisi di garanzia per altri, ben più gravi reati.

Se fosse solo per i discendenti dei Maya, le svariate tribù pellirosse, gli ambientalisti americani e i tanti bastian contrari nostrani, perché non spedire un bell’avviso di garanzia a Colombo, ai fratelli Pinzón suoi compari nella spedizione e ai Reyes Catolicos, incriminandoli di disastro ambientale, schiavitù perpetrata e continuata, esproprio e inquinamento del suolo altrui?
La polemica continua e in attesa del verdetto del Tribunale della Storia andiamo a fare due passi – le distanze sono assai brevi – nei luoghi Colombiani per eccellenza.

Sostegno morale e materiale dai Frati della Rabida
Colombo Monastero della Rabida
Monastero della Rabida

Huelva, capitale della più occidentale provincia dell’Andalusìa, alla confluenza dei fiumi Tinto e Odiel, è coinvolta solo marginalmente nei destini del navigatore genovese; fra tante illazioni, l’origine dell’Almirante resta uno dei pochi particolari certi della vicenda. Nella capitale “onubense” Colombo avrebbe dovuto portare il figlioletto Diego e lasciarlo alla sorella della defunta moglie, Dona Felipa Muñìz de Palestrello o Perestello, ma il primogenito dell’Almirante non vi arrivò mai perché il padre preferì affidarlo ai frati francescani del monastero della Rabida, sul fiume Tinto.

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In una ideale classifica dei luoghi più importanti nella gestazione della Scoperta dell’America, la Rabida è nelle posizioni di testa, se non la prima. Nella Cella delle conferenze e nella Sala capitolare – oggidì visitate da turisti di tutto il mondo e quelli sudamericani non nascondono sensazioni di ispanico orgoglio – Colombo capì al volo che Fray Juan Perez e Fray Antonio de Marchena avrebbero potuto portarlo lontano.

Colombo e l’astronomo Fray Antonio de Marchena
Colombo La Partenza da Paolos
La Partenza da Paolos

Secondo alcuni il primo aveva ricoperto il ruolo di “contador” (contabile) a Corte, secondo altri era stato addirittura confessore della regina Isabella. Quali che fossero i precedenti di frate Perez, ce n’era a sufficienza per considerarlo, come dicono gli spagnoli “bien metido”, bene introdotto in una Corte che, secondo la moda del tempo, era perennemente itinerante (di qui la necessità, per Colombo, di mollare il figlio per girare la Spagna mendicando udienze a Fernando e Isabella).

A fronte del peso politico e spirituale del Perez, Fray Antonio de Marchena, astronomo, fu il padrino “scientifico” dei sogni e delle vicende colombiane: grazie a lui il genovese entrerà in contatto con i potenti duchi di Medina Sidonia, futuri Grandi di Spagna, sempre di casa nel Palazzo. Dalla Rabida partirono missioni e ambascerie alla ricerca di appoggi e finanziamenti che permettessero la grande spedizione, via mare e con l’intento di raggiungere l’Oriente, in direzione opposta rispetto al tragitto compiuto secoli prima da Marco Polo.
Tra i più frequenti destinatari, un altro frate, il domenicano Diego de Deza, priore del convento “plateresco” di San Esteban a Salamanca, che in un freddo inverno castigliano ospitò un Colombo tanto convinto sulla validità dei suoi calcoli quanto determinato a partire.

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Tra colonne e statue commemorative

Colombo Monumento a Colombo

Il monastero de La Rabida colpisce il visitatore per la storia che racchiude, l’armonia delle linee architettoniche e la dolcezza del paesaggio che lo circonda. Su uno spiazzo antistante la chiesa del monastero, di stile gotico-mudéjar, si erge la “Columna de los Descubridores”, inaugurata nel 1892 in occasione del Quarto Centenario Colombiano. Poco distante, sulla Punta del Sebo, alla confluenza del Tinto con l’Odiel, una gigantesca non meno che greve statua di Colombo, dell’americana Whitney (1929) guarda verso l’America. Il grigiore del granito e il volto arcigno dell’Almirante, appoggiato a un’enorme croce, fanno tornare alla mente le accuse dei discendenti dei conquistati sulla severità, si fa per dire, dei Conquistadores (ma vinsero questi ultimi, e per la Storia va bene così).

Palos, porto del Nuovo Mondo
Colombo Chiesa di San Giorgio
Chiesa di San Giorgio

Un paio di chilometri a monte, sul Tinto, ai tempi colombiani vivace porto commerciale grazie al minimo pescaggio di “naos” e caravelle, Palos si presenta come la Cape Kennedy dell’Evo moderno. In un paesaggio acquitrinoso e in completo abbandono (ma a valle una ricostruzione dei tre navigli e un mini museo in stile disneyano danno l’idea di ciò che fu), si stenta a riconoscere il molo che il 3 agosto del 1492 costituì la ”piattaforma di lancio” della Nina, della Pinta e della Santa Maria.
Meglio procedere verso la chiesa di San Giorgio, perfettamente conservata e di un certo interesse artistico oltre che, ovviamente, storico. Chi la visita apprende che mercoledì 23 maggio, “año del nascimento de nuestro Salvador Jesuscristo de 1492”, davanti all’altare maggiore fu letta la reale prammatica che finalmente ordinava la consegna delle imbarcazioni a Colombo.

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Nella fonte battesimale, di una estrema semplicità che muove a tenerezza, furono battezzati i fratelli Pinzón, croce e delizia dell’impresa colombiana. Dopo più di mezzo millennio nemmeno questa macrovicenda sfugge alla moda e ai pruriti di oggidì, è risparmiata dall’imperante revisionismo, dai distinguo, dalle contestazioni di un mondo che si è messo a ri-scoprire non avendo più niente da scoprire o, più probabilmente solo perché, edonisticamente appagato, ha perso l’interesse di scoprire qualcosa.

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