L’occhio e il pensiero corrono spesso oltre il braccio di mare che separa l’antica Formosa dalla immensa madrepatria cinese. Di là le radici e i legami di sangue; di qua l’orgoglio nazionalista e una vita vissuta a cento all’ora. A quasi trent’anni dalla morte di Chang Kai Shek e a sei mesi dalla scomparsa della ultracentenaria vedova, Taiwan si ritrova con qualche punto di riferimento di meno e un primato in più. Il venir meno dei primi coincide curiosamente, o forse non tanto, con il delicato momento politico attraversato dal Kuomintang. Il partito dei nazionalisti cinesi fondato dal “Generalissimo” e rimasto al potere senza interruzioni dal 1949 al 2000.
Ritiratasi nella tenuta di Long Island fin dal 1990, Soong Meiling non aveva mai cessato di ricordare all’America e all’Occidente la necessità di proteggere l’isola. Quell’isola ribelle minacciata d’invasione della Cina Popolare. Ora alla presidenza dello stato è andato Chen Shui-bian, candidato del partito indipendentista. La sua affermazione, dopo l’attentato subito alla vigilia del voto, con un margine di trentamila voti su sedici milioni di elettori è bastato allo sconfitto, Lien Chan, per parlare di brogli. E naturalmente contestare il risultato elettorale. Così l’eredità morale della signora Chang si è fatta ancora più pesante, buttando benzina sul fuoco di una vicenda che era di per sé elettrica.
Indipendenza? Pechino è più che sorda
Lien era il portabandiera del sogno di un’almeno vagheggiata “reconquista” della Cina continentale, che qui chiamano “mainland China”. Chen, invece, parla apertamente di referendum per la secessione dalla madrepatria (per la quale Taiwan è una provincia ribelle). La parola secessione far venire l’orticaria al governo di Pechino. Pertanto è tornato a minacciare un intervento militare, stavolta “a difesa delle minoranze” oppresse. Laddove le minoranze sono però proprio e fino a ieri odiatissimi eredi di Chang Kai Shek. I taiwanesi, da parte loro, hanno risposto alle minacce rinforzando le difese. Hanno moltiplicato i già stretti rapporti commerciali con quei paesi che, come gli Usa, per non dispiacere alla Cina Popolare, formalmente si rifiutano di riconoscere Taiwan, ma poi sono i primi a fare gli affari. Esattamente come fa la Cina con i loro cugini isolani. Paradossi della politica orientale. Resi ancora più paradossali dal fatto che, con investimenti per cento miliardi di dollari, il secondo partner commerciale di Pechino è proprio Taiwan.
Taipei, esplosioni verticali
Relativamente più stabile, terremoti permettendo (l’ultimo fece crollare la gru dalla sommità del cantiere), è il primato del Financial Center. Detto anche One-O-One: megastruttura che con i suoi 508metri è il più alto tra i grattacieli del mondo. Vero e proprio inno al capitalismo con gli occhi a mandorla. Su tutte e quattro le sue facciate troneggia, come una bandiera ostentata al pianeta e soprattutto a chi sta aldilà dello stretto di Formosa, il simbolo dell’antica moneta cinese. La sua mole incombe sul formicaio di Taipei e riverbera, attraverso migliaia di lastre di vetro, le luci che si levano dalla caligine di una città perennemente sospesa tra i miasmi dei sottoscala e lo splendore sfavillante dei luoghi di potere.
Il record d’altezza appena conquistato, più che da tanti altri progetti che già si profilano agli orizzonti dell’architettura mondiale, sembra però insidiato dal tarlo del dubbio, insinuatosi nella mente dei manager di fronte alla crisi che negli ultimi anni ha colpito l’economia dell’isola. Crisi per modo di dire: la crescita è stata per la prima volta inferiore al cinque per cento annuo. Colpa, dicono, di quel maledetto referendum e del crollo della Borsa provocato dal riaccendersi delle tensioni con i dirimpettai.
Taiwanesi superattivi…
Sarà. Ma chi non veste in grisaglia non pare preoccuparsi troppo: la gente è piena di inventiva e di pragmatismo. Perdo il posto di lavoro in fabbrica? Eccomi il giorno dopo tra i fumi d’incenso del tempio di Confucio a riciclarmi come indovino. L’ozio non esiste e nessuno sembra aver paura di niente: né degli scandali finanziari, né delle crisi economiche, né dei terremoti. Sarà per lo spiccato senso della precarietà. Sarà il fatto che da mezzo secolo ci si aspetta un attacco militare dai parenti-serpenti di Pechino. Forse sarà ancora che il settanta per cento della popolazione è costituita da giovani sotto i venticinque anni. Fatto sta che in ogni momento della giornata la città brulica, le strade scoppiano, la gente consuma, beve, mangia, compra a dispetto di tutto.
Davanti all’ingresso dello Shin Kong Observatory, il grattacielo che, prima della nascita dell’One-O-One, fungeva da torre di osservazione sulla città, in piena ora di punta si tengono sfilate di moda. Una moda per giovanissimi, con le teenager che si accalcano urlando sotto il palco. Tentare di solcare la folla che intasa l’antico mercato di Shrlin è quasi un’esperienza rivelatrice. Qui c’è il commercio allo stato puro, il trionfo della plastica, ogni sorta di gadget, diavolerie elettroniche, kitsch ipertecnologico. Una Blade Runner senza pioggia.
…ma legati alle antiche tradizioni
Eppure, sembrerà strano, in questo tempio del consumismo, tra schermi a cristalli liquidi e pannelli pubblicitari elettronici affissi ovunque, dalle facciate dei palazzi ai corridoi della metropolitana, tra milioni di volti tutti apparentemente uguali, lo spazio riservato alle tradizioni è ampio e, a suo modo, delicato.
Lo si misura, ad esempio, andando a zonzo la domenica mattina lungo il grande mercato dei fiori che sorge sotto il viadotto di Jianguo Road. Qui le famigliole impegnate nello shopping del fine settimana, i gruppi di amici reduci dalle “disco” del sabato sera e le coppie di vecchietti in ora d’aria, si concedono il lusso di perdere tempo acquistando bonsai di bambù e piantine ornamentali per la casa.
Tutte cose che nulla sembrerebbero avere a che fare con lo stile di vita di una società in ebollizione come quella taiwanese. Lo si vede, anche, mettendo il naso tra i bambini e i genitori che giocano nel parco di Daan, dove la skyline muta ogni primavera non con lo spuntare delle foglie degli alberi ma con quello dei nuovi edifici dal design d’avanguardia che tutto intorno progressivamente prendono il posto dei brutti palazzi di cemento degli anni Sessanta.
Taipei, il teatro dei ricordi
Dietro le quinte della scuola dell’Opera Nazionale Cinese, all’estrema periferia cittadina, centinaia di ragazzi con il volto coperto di cerone e il corpo avvolto nei costumi tradizionali si esercitano. Ogni giorno per ore provano la mimica, la danza e la recitazione, portando in scena – sempre in sospeso tra il grottesco e il solenne – l’epopea dell’epica medievale del Celeste Impero.
Si districano tra i canovacci di una tradizione popolata di generali coraggiosi, scudieri fedeli, mura da assediare, imperatori da onorare, promesse da mantenere. Anche se nessuno sembra pensare a tutto questo tra gli avventori che, stravaccati su una sedia e con gli occhi fissi alla tv, bevono grappa mescolata al sangue di un serpente che lì vicino ancora si contorce appeso vivo a un uncino, in uno degli “snake-bar” (bar del serpente!) di Shrlin.
Taipei: vendere, comprare, consumare
Come in un suq postmoderno, i marciapiedi di Shingen Road, la via del mercatino high-tech della capitale, vedono affacciarsi alla rinfusa enormi empori dell’elettronica, scantinati maleodoranti stracolmi di computer e di accessori di ultimissima generazione, artigiani dell’ambra, banconi di bric-a-brac, statue lignee di Buddha strappate da qualche tempio e importate chissà come dal continente per essere messe in vendita tra le marmitte delle auto e gli sporti di rigattieri e antiquari.
Impossibile capire da dove questo mostruoso volume di merce spunti e dove vada a nascondersi la sera, quasi risucchiato dal drago a sette teste che è capace di nutrire come un figlio l’intera corte dei miracoli che lo circonda: compratori, venditori, rappresentanti o sedicenti tali, mediatori, imbroglioni, fannulloni, curiosi, trasportatori, emissari chissà di chi o di cosa.
Regole di vita severe, per tutti
Eppure, a Taipei, con la legge e l’ordine non si scherza. Lo si intuisce dallo sguardo di pietra dei soldati del picchetto d’onore immobile davanti all’immenso mausoleo del generale Chang Khai Shek. Il loro elmetto cromato riflette le gocce del sudore, mentre immobili battono i tacchi e avviano il corteggio che, come un balletto marziale, ogni mezzora segna il cambio della guardia. Stessa scena, stesso sconfinato cortile, stesse macchine fotografiche mentre i militi si lanciano acrobaticamente i fucili l’un l’altro nel piazzale del Mausoleo dei Martiri, impettiti come soldatini di piombo, gli occhi fissi nel vuoto.
Anche loro paiono cercare, in un orizzonte che non c’è, il profilo della mainland China, simbolo di un rimpianto che non ha fine e di un nazionalismo che sotto il Generalissimo è diventato un motto e una bandiera. Dalle pareti del mausoleo i bassorilievi rievocano le battaglie antinipponiche degli anni Trenta e la rivolta di Canton del 1911. Poco più in alto si stagliano le auguste sale del Grand Hotel Taipei, il più grande edificio a pagoda del mondo, dove echeggiano delicate melodie orientali.
I taxi vanno e vengono. Lo smog incombe. Questa, in fondo, è “cyborg city”.
Taipei, la gogna elettronica
Perfino su come tenere a bada i problemi creati da tanta concentrazione umana (secondo le statistiche a Taipei è la più alta del mondo) si hanno idee chiare. Qualche anno fa il comune si è accorto che i cittadini producevano troppa spazzatura. Bene, che ha fatto il sindaco? Prima ha contingentato la spazzatura producibile in base alla composizione del nucleo familiare, poi ha fissato multe salatissime a carico dei pater familias che avessero superato il limite, infine ha deciso che l’immondizia fosse raccolta utilizzando non i comuni bidoni, bensì appositi sacchetti di plastica, anch’essi razionati in base al volume di spazzatura autorizzato e acquistabili al supermercato con una tessera.
L’immondizia non “regolamentare”, recita l’editto comunale, non viene ritirata e gli abusi saranno puniti. E per prevenire il prevedibile mercato nero dei sacchetti, il primo cittadino si è inventato il deterrente della “gogna elettronica”: una pagina web sul sito del comune sul quale nome, cognome e foto segnaletica del reprobo, grazie anche a delazioni incentivate, vengono spiattellati al pubblico ludibrio.
Risultato: in due anni la produzione di spazzatura è crollata del trentacinque per cento e ora, attraverso il riciclaggio, si punta alla produzione zero.
Terrorismo burocratico in salsa cinese? Macché. A Taipei lo sviluppo del mezzo telematico ha anche i suoi vantaggi. A ogni cittadino che ne faccia richiesta il comune dà gratuitamente un “account” sul proprio website: siamo arrivati a due milioni. “Del resto – dice il sindaco – qui ci sono novecentomila famiglie e l’ottantadue per cento di esse ha in casa un computer. La nostra è una “cyborg city” a tutti gli effetti”.
Il National Museum
È la principale attrazione turistica della città e vale da solo la visita a Taiwan.
Le sue strabilianti collezioni di oggetti d’arte cinese di ogni epoca (circa settecentomila pezzi che coprono un arco di cinquemila anni di storia), tanto da essere esposte a turno in mostre temporanee e la leggendaria storia del loro arrivo nell’isola ribelle nel 1949, contenute in quattromilaottocento delle ventimila casse del tesoro imperiale cinese sottratte da Chang Khai Shek alle forze comuniste al momento della ritirata, appartengono al cuore dell’epopea taiwanese.
Si dice che il Museo Nazionale raccolga da solo il settanta per cento del patrimonio culturale cinese sopravvissuto alle guerre e alla rivoluzione culturale di Mao Tse Tung: migliaia di bronzi, decine di migliaia di porcellane e di calligrafie, addirittura centinaia di migliaia di libri, dipinti, disegni.
Aperto in orario continuato dalle nove alle diciassette, il museo ha un’ampia libreria ricca di cataloghi monografici, un ristorante e un giardino.