Giovedì 21 Novembre 2024 - Anno XXII

Meraviglie verdi sul Lago Maggiore

Isole Borromeo foto Corradox Creative Commons

Le isole Borromee, viste in una giornata di “acque” abbondanti: dal lago e dal cielo. Quindi Villa Taranto a Pallanza, con un po’ di sole a vivificare le preziose bellezze botaniche, grandi attrattive del centro lago

Isole Borromee Isola Madre foto Gianni Careddu Creative Commons
Isola Madre foto Gianni Careddu Creative Commons

Mi aspettano al molo privato dei principi Borromeo e su una piccola barca raggiungo la prima delle Isole Borromee che visiterò: l’Isola Madre. Verde e opulenta, sembra galleggiare placida nel grigio uniforme che la avvolge, mentre nuvole basse lambiscono pigramente gli alberi rigogliosi mutandone i contorni.

Isole Borromee. Isola Madre, per piante, fiori e volatili

Isole Borromee Isola Madre, la scalinata foto Wolfgang Sauber
Isola Madre, la scalinata foto Wolfgang Sauber

Mi incammino per la scalinata che porta ai giardini, e percorro il viale Africa, così chiamato perché – punto più temperato dell’isola grazie alle correnti d’aria calda che lo investono tutto l’anno – ospita piante di origine tropicale.
Di lì arrivo al Piano delle Camelie, dove intimidita osservo alberi secolari grondanti acqua e fiori, i petali setosi delle camelie rosse e rosa, e quelli cerulei delle camelie bianche, che si stagliano contro il fogliame, scuro e lucente di pioggia e di bellezza.
La prima sorpresa di questo luogo incantato mi aspetta poco distante, mentre mi avventuro nel prato dei Gobbi: le radici di un enorme Taxodium Distichum affiorano in superficie, come gobbe di un animale preistorico, misterioso e sconosciuto. Nodi duri e levigati che punteggiano il verde nuovo e pulito dell’erba.
Nel silenzio appena interrotto dal timido chioccolio dell’acqua tra i rami e reso ovattato alle mie orecchie dal cappuccio che mi protegge, improvvisamente compare un uccello, un fagiano dorato che, indifferente alla mia presenza, esplora i bassi cespugli di azalee e rododendri alla ricerca di qualche boccone interessante.

Isola_Madre foto Wolfgang Sauber
Un pavone bianco foto Wolfgang Sauber

E’ come un’apparizione, le penne sfolgoranti che appaiono nitide dentro l’aria pesante e sfocata d’umidità, un momento di perfezione che sembra, per un attimo, sospendere il tempo. Ma l’attimo passa presto, e l’occhio si distrae cogliendo un altro movimento. Ed è un pavone quello che attraversa un prato poco lontano, incurante della pioggia, il meraviglioso piumaggio appeso alla coda come lo strascico di una sposa distratta. Mi addentro lungo il viale, e mi scopro circondata da uccelli: fagiani di varie specie, pavoni bianchi e blu, pappagalli.
Piazzale dei Pappagalli: si chiama proprio così lo spiazzo dominato da una magnolia altissima e profumata, nel pieno rigoglio della fioritura. Sotto di essa due voliere, che ospitano pappagallini chiassosi e colorati. Vagando ancora mi spingo verso un angolo appartato, dove una solitaria panchina sembra reclamare a gran voce un po’ di compagnia. Una specie di piccola terrazza permette di affacciarsi sulle acque del lago, oggi torbide e scure per la pioggia; appena più in là il molo dell’isola, in cui si aggirano due dei candidi cigni che vengono a nidificare proprio qui.

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Un palazzo nel verde

Isole Borromee

Si scorge il palazzo dietro la verzura, e lo raggiungo vagando distratta nel colore accogliente e confortante di questo luogo. Forse per questo non sono preparata a quello che mi aspetta. La cortina di verde si apre e mi trovo in un largo spazio antistante un lato esterno del palazzo.
Ma l’attenzione è attirata senza scampo dall’albero che, maestoso e clemente, attende il visitatore al centro della scena. E’ un Cipresso Cashmiriano, i rami ascendenti che dolcemente si inarcano verso il cielo ricoperti di un manto verde-blu argentato, che ricade lento e possente a suggerire luoghi di incontaminata bellezza e rassicurante abbandono. E’ una sirena ammaliatrice, il cui canto fluttua attraverso la pioggia sottile e insistente che mi avvolge, e sembra tendere braccia morbide, accoglienti, consolatorie.
Dopo questa incantevole visione, tutto il resto offre una bellezza ahimè fredda nella propria perfezione: il palazzo, con le stanze ammobiliate e le collezioni di bambole, oggetti d’epoca, teatrini e marionette; la piccola cappella, con le aiuole bordate di fiori; il viale delle palme che si affacciano sul lago; alle loro spalle i muri del palazzo, ricamati dai rami ancora spogli di buganvillee e rose rampicanti. Persino la vasca dei fior di loto, che fioriranno in estate, ora sembra rimandare sconsolata il mio sguardo smarrito.

Isole Borromee. Verso l’Isola Bella

Isola Bella
Isola Bella

Di nuovo in barca, sono ora diretta all’Isola Bella. I visitatori sono davvero pochi: soprattutto gruppi di tedeschi, più di noi abituati all’inclemenza del clima e che ogni anno, numerosi e fedeli, visitano questa parte del lago.
Dopo il rigoglio dell’Isola Madre, pensata più di recente come luogo aperto al pubblico, Isola Bella si apre al visitatore come esempio di perfetta e rigorosa geometria, ove l’opera dell’uomo convive e si completa attraverso la natura.
Il palazzo sembra emergere, magnifico, dalle acque.
L’attracco è al piccolo molo con le boe dipinte in rosso e blu, i colori della famiglia Borromeo, proprietaria di questi luoghi; una manciata di scalini mi separa dalla minuscola piazza, su cui si affacciano le poche case dell’isola.
Naso in aria e audioguida ben piazzata sulle orecchie, navigo tra i locali di Palazzo Borromeo, fino ad arrivare alle stanze delle grottesche, completamente ricoperte di ciottoli bianchi e neri, tufo e pietre lustre. Di qui si accede direttamente ai giardini terrazzati.
Lungo i viali si susseguono alberi d’alto fusto e cespugli di azalee e rododendri ancora in boccio, palme e camelie in fiore, magnolie e sempreverdi; e poi ancora melograni e anici stellati che fioriranno tra qualche tempo, insieme con gardenie e gelsomini. Tutto è ordine e serenità, in un crescendo di profumi e colori che scandiranno i mesi a venire.

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La dimora dei Borromeo

L'anfiteatro a picco sul lago
L’anfiteatro a picco sul lago

Si va a zonzo così, nell’umido che non risparmia nemmeno i poveri pavoni bianchi, stretti uno all’altro con un’aria afflitta che non giova alla vanesia bellezza che li contraddistingue. Si va fino a raggiungere lo splendido anfiteatro decorato con granito e tufo che si innalza a picco sul lago. Sulla sommità troneggia una statua del Liocorno cavalcato da Amore, dal XVII secolo simbolo araldico della casata Borromeo.
Sfidando l’aria sempre più ostile di questa impossibile giornata, mi spingo fino alla parte posteriore del Teatro Massimo, lo sguardo libero di vagare sulla superficie increspata di un’acqua plumbea.
Ricordo una fotografia vista tempo fa: ritraeva quest’isola al tramonto, e nella luce dorata ogni cosa sembrava galleggiare placidamente. Curiosamente la sensazione che mi pervade è la stessa che provai allora: un malinconico struggimento per tanta, commovente bellezza.
Mentre ritorno verso la terraferma, rimane negli occhi l’immagine della piccola Isola dei Pescatori, con le case che sembrano dipinte le une vicine alle altre, quasi accalcate, infreddolite quanto i pavoni del parco.

Taranto, a Pallanza

Villa Taranto
Villa Taranto

Una settimana più tardi, nel sole che finalmente scalda giornate sempre più lunghe, ecco un parco speciale. Alla natura basta così poco per aprire il suo gioioso inno alla vita! Un raggio più tiepido, l’aria improvvisamente più dolce, ed è tutto un brulicare di forme e colori. Qualche volta, osservando lo schiudersi delle gemme, sembra quasi di percepire il fremito della linfa di attimo in attimo.
Villa Taranto deve la straordinaria realizzazione del proprio parco a uno scozzese innamorato del Lago Maggiore, il capitano Mc Eacharn, che acquistò la tenuta nel 1931. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale dovette lasciare l’Italia e decise così di lasciare la proprietà allo Stato. Rientrato alla fine del conflitto, si adoperò, da grande appassionato ed esperto di botanica quale era, per trasformare il parco in qualcosa di unico e straordinario.
Favorito dal clima mite della zona, importò e mise a dimora specie arboree numerose e rare, riuscendo a sfruttare appieno un microclima che permise anche qualche piccolo “miracolo”, come la prima fioritura in Europa, trentatré anni fa, di un Emmenopterys Henry, una rubiacea originaria della Cina e piantata a Villa Taranto nel 1947.

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Il trionfo del verde a due passi da Milano

Dicksonia appartenente alla famiglia delle felci arboree
Dicksonia appartenente alla famiglia delle felci arboree

Oggi non è più possibile visitare la villa, diventata da tempo sede della Prefettura. Il parco, invece, è aperto ai visitatori da aprile a ottobre. Di mese in mese lo spettacolo che offre è sempre diverso e affascinante, i colori si sovrappongono in un’armonia davvero suggestiva.
Camminando da un luogo all’altro si scivola dentro scenari straordinari affatto differenti e si deve a tratti fare uno sforzo per ricordare a sé stessi che, a una manciata di chilometri da qui, c’è Milano e non qualche brumosa contrada scozzese circondata da distese di erica. Né tantomeno una misteriosa città orientale sepolta in una giungla di felci, piante tropicali e corsi d’acqua dove prosperano i fior di loto.
Mi attardo sotto la pergola cui si aggrappa il profumatissimo glicine, per giungere infine ai giardini terrazzati all’italiana: sontuose aiuole si distribuiscono intorno alla vasca centrale, baricentro di una raffinata e aristocratica bellezza. Di lì si arriva poi al giardino d’inverno, con la sua collezione di piante grasse e alla serra tropicale, che racchiude esemplari ancor più rari e preziosi.
Ancora una volta, però, nella moltitudine di colori che si mescolano e digradano l’uno nell’altro, si fa strada un’immagine: una magnolia stellata oramai in procinto di sfiorire. Ai piedi dell’albero verdeggiante si posano, delicati, petali candidi come neve, e si mescolano ai narcisi odorosi che resistono all’avanzare della primavera. C’è qualche nuvola gonfia e zuccherosa nel cielo, e questo tratto del parco sembra improvvisamente fatto di niente: di una polvere di tenui colori legati per qualche istante a noi mortali, il ricordo di una perduta perfezione che rimane aggrappata a un’impalpabile fremere di petali e rami.

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