Venerdì 22 Novembre 2024 - Anno XXII

Valle Sabbia

Vista_sul_Garda_e_Valsabbia_dalla_Corna_Savallo ©Francesco Zanardini

Una sperduta valle del bresciano che si attorciglia attorno al fiume Chiese. Paesini di poche case, piccoli e antichi edifici religiosi, una natura asprigna che incute timore. Qui, dove il visitatore è ancora “forestiero”, c’è spazio per guardarsi dentro

Panorama da Bione
Panorama da Bione

Percorro la valle del Chiese in quel tempo remoto che è oggi.
Il fiume, per nome e per scorrere austero, evoca una ricorrenza sacra.
La chiamano Valle Sabbia, ma piove. Il fenomeno si ripete spesso e causa il rigoglio della vegetazione. “Sabbia” non perché ci siano mai state cave di quel materiale, ma per via di una parola storpiata da millenni.
Il bosco lussureggia ai due lati della strada, o di quel poco che di asfalto si vede nel temporale. Il verde invece la montagna lo sfoggia tutto insieme, brillante per l’acqua.
Un viottolo laterale porta al santuario dei martiri di Barbaine – frazione di Livemmo, che già di per sé è un microbo – morti più di mezzo millennio fa per un motivo che non ho approfondito. La chiesa trecentesca contiene un affresco strano.

Il finto Santo

Affresco di San Simonino a Barbaine
Affresco di San Simonino a Barbaine

C’è un ragazzo insanguinato che viene torturato da dei tizi con sacchi di monete appesi alla cintura e nasi adunchi. Lui è San Simonino e loro sono Ebrei, rappresentati come uomini avidi e crudeli. L’episodio fu inventato ai tempi per alimentare l’antisemitismo, ma ora è solo un innocuo affresco alla parete di un santo mai esistito. I bambini accendono una candela e usciamo tra gli scrosci.
La complessità dei sentimenti si comprime fino all’essenzialità, sotto questa edicola votiva con ortica fastidiosa, che mi morde tre volte gli stinchi mentre preparo i panini umidi al prosciutto. A saperlo, che qui le preoccupazioni si vaporizzano, uno sarebbe venuto anni fa. Gran bel pic-nic, senza il problema di come sciacquare la frutta.
Tra gli scrosci scende dal bosco un uomo: padre Stefano, unico monaco del santuario, eremita con cagnolone bianco. Chiede perché non abbiamo mangiato in chiesa.
Non ci avevamo proprio pensato, noi figli di una religiosità inospitale, che vieta di sbriciolare in casa del Signore.

Valle Sabbia: Tre lettere da Bisanzio

Ono Degno
Ono Degno

Da Ono Degno (degno è un aggettivo che si addice a questo paese di case medioevali) mi hanno portata – non per volontà mia, che soffro di panico da ascesa lato strapiombo – su uno sterrato tremendo, dove abbiamo incrociato una lepre e alcuni cercatori di funghi. Sulla cima della montagna i bambini guardano giù e ridono nel vedere com’è piccolo il paesino là sotto. Sbircio e non rido, però penso che se siamo diretti laggiù manca poco. Una conca selvaggia, con tanto di falchi.
Bisenzio fa rima con silenzio. Numero abitanti tre o qualcosina di meno. Case di pietra intorno a una piazza, appoggiate a un versante scosceso. Non so se per un caso, per il pericolo scongiurato o per il posto sperduto, dove si può fingere di pensare che non arrivino mai le raccomandate né le urgenze né i tradimenti, a sole tre consonanti di distanza – quelle che separano la “a” dalla “e” – da Bisanzio e dalle sue complicazioni, ho scoperto il suo esatto opposto in questo angolo austero, deserto, inespugnabile dalle seccature. Prenoto il sito come meta del mio futuro. Non credo di essermi mai innamorata in vita mia di un romitorio, ma stavolta è accaduto.

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Ono Degno, la casa-torre restaurata
Ono Degno, la casa-torre restaurata

C’è una casa di pietra a forma di torre a cui qualcuno deve avere staccato il portale, sull’argine dello strapiombo: è lei che mi chiama.
Siamo arrivati dalla strada di servizio, quella che è meglio non fare. Come sarà la direttiva principale? Non sterrata, tanto per cominciare, e non agevole. Passa da Presegno, altro centro piccolo come un mirino, ma che rispetto a Bisenzio pare New York e scende in una forra scura, perdendo la luce tra le rocce e i rami.
Un purgatorio dantesco, dove tra i fumi argentati ci si inabissa per rigenerarsi.

Valle Sabbia Biù, paese “frazionato”

Campanile di Bione
Campanile di Bione

Bione è un paese di quattro gatti e cinque frazioni (Pieve, Bersenico sotto, Bersenico sopra, Navezze, Dossolo e San Faustino). Ha due negozi di alimentari, un parrucchiere, un bar, una pizzeria, un ristorante, una farmacia con una dolce farmacista che ama assai conversare e un’edicola dove se vuoi un quotidiano è meglio che lo prenoti.
Il campanile della chiesa di San Faustino e Giovita, la parrocchia, domina una valle trapassata dalle nuvole, le cui strade non sono battute da piede turistico.
Se non sei del posto vieni identificato subito dopo il confine e guardato a vista da molti occhi, collegati a bocche che ti fanno domande su chi sei, da dove vieni, cosa ci fai lì, eccetera.
La piazza principale ha un lavatoio che non è un rudere del passato, ma funge ancora da lavanderia del paese. Tutte le mattine, a orari indecenti, trovi signore che lavano biancheria, tappeti e caffettiere. Credo lavino le caffettiere perché ce n’è sempre qualcuna appoggiata sul muretto. Forse invece le donne si trovano lì a bere un caffè in compagnia. Comunque l’acqua, anche a luglio, è gelida.
Nella piazza si svolge il torneo di pallacorda, unico evento dell’anno, il quale da secoli si disputa tra le varie contrade. Molte sono le case antiche, alcune cinquecentesche, come quella degli Amorini; alcune in abbandono, altre ristrutturate secondo i canoni architettonici della neurodeliri.

Valle Sabbia: Il bosco dei cacciatori

La chiesina di San Bernardo
La chiesina di San Bernardo

Salendo, c’è il bosco delle favole. Prima del bosco, i piani di Lo, immenso prato verde con qualche mucca e una pozza d’acqua torbida zeppa di rane giganti.
Arrivo di mattina sotto il diluvio e salgo con Angelo (nome tra i più adatti all’ascesi) fino alla chiesina cinquecentesca di San Bernardo, dietro la quale sta una serie di lapidi piantate in terra, cenotafio degli alpini morti nelle due guerre mondiali.
Di fianco a ogni pietra una bandierina di plastica, davanti a ognuna di esse una bottiglia in “pet” decapitata, con dentro un garofano finto.
Nel frattempo ha smesso di piovere e si può iniziare la piccola scalata per San Vigilio. Il bosco delle favole è privo di lupi, ma in compenso piuttosto affollato di cacciatori, che hanno come preda uccellini di pochi grammi, ambito ingrediente dello “spiet”, lo spiedo bresciano.
Io, che avevo visto questa gita come una specie di pellegrinaggio, non sono molto contenta di vedere decine di gabbie di uccelli da richiamo, in cui poveri animali vengono tenuti rinchiusi affinché i loro lamenti di prigionieri attirino loro simili da uccidere a fucilate. Per fortuna le gabbie sono vuote.

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La Vergine decapitata

Salita a San Vigilio
Salita a San Vigilio

Camminiamo in costa alla montagna, tra due pendici piacevoli e poco ripide.
Piano piano, come premio per essere venuti fin qui malgrado l’acqua battente, esce il sole ed ecco fatto.
L’ultima parte del sentiero si è trasformata nel letto di un torrente, che malgrado il diluvio è in secca. Ha un suo fascino arrampicarsi su questa stradina bianca, guardando la costruzione sulla cima. San Vigilio è a 1200 metri di altezza. Non una vetta, ma un punto di arrivo.
Costruita nei primi del Cinquecento, è una chiesina tenera divisa in due: due terzi luogo di preghiera e un terzo ricovero per viandanti, con camino, fiammiferi, giornali e legna per farsi un barbecue in scenario mistico o per scaldarsi in climi infelici.
Alla parte dedicata al ristoro si accede attraverso una porta di metallo, sempre aperta, recante una scritta che invita alla pulizia e al rispetto, mentre la chiesa vera e propria è ben chiusa e si può spiare da due finestre con grate. Giusta precauzione, visto che l’affresco della Madonna con Bambino, San Vigilio e soci, manca proprio del viso della Vergine, strappato da mani nemmeno troppo maldestre, che avevano lo scopo di farne commercio. Questo posto è fuori da ogni via di collegamento, lontano da rotte antiche e nuove.

Preghiere per avere figli

Interno della chiesa San Vigilio
Interno della chiesa San Vigilio

Escluso il ladro di icone e pochi altri, tutti coloro che hanno messo il piede qui nello scorso mezzo millennio non l’hanno fatto per caso, ma per volontà di venirci.
La tradizione vuole che le donne venissero qui da tutta la valle a chiedere di avere figli, salendo in ginocchio e grattando l’ingresso e che la Madonna spesso concedesse loro la gioia di dare alla luce un bambino.
Pare che ancora oggi qualche coppia di sposi venga a chiedere tale grazia. Anche se i desideri espressi non si realizzano, certo è che stare qui e guardare dall’alto questo spazio, privo di sfregi visibili eccetto i tralicci, volatilizza gli impedimenti a concepire cose innocenti. Sarà a causa di un’interpretazione di questa sensazione che si credeva che qui ci fosse una cura per la sterilità. Dopo l’abbandono delle preoccupazioni di Barbaine, l’alleggerimento spirituale di San Vigilio. Scendo con la leggiadria di un ippopotamo, ma dentro di me c’è uno scoiattolo che si rotola giù per il pendio.

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Valle Sabbia: I morti antichi della Corna Nibbia

Scavi a Corna Nibbia
Scavi a Corna Nibbia

Una piccola deviazione a destra nella strada sterrata alle spalle di Biù e si va alla Corna Nibbia. Basta chiedere e lo sanno tutti, dove lavorano gli archeologi, perché il sito è diventato la gloria nazionale dei bionesi. La Corna Nibbia è nuda roccia nella montagna; e si vede da molto lontano. È un riparo sottoroccia, dal suolo secco da migliaia di anni perché l’acqua non arriva in nessun modo.
Qui c’è una necropoli dell’età del rame, ma non solo, poiché per migliaia di anni gli uomini frequentarono questo luogo.
Immagino questi poveracci, terrorizzati dal buio, perseguitati da continue morti violente e premature, che si stanziano in questo sito sopraelevato e riparato e accendono fuochi, aspettando di vedere nascere un sole che li conforti.
In un altro tempo ancora precedente seppelliscono lì i morti, perché il loro buio sia in qualche modo rischiarato. Praticano un rito antico: prima abbandonano nel bosco i cadaveri finché non sono ridotti in scheletro e infine spezzano le ossa, affinché non venga loro in mente di tornare a spaventare i vivi che già hanno abbastanza paura. Infine vengono tumulati con collane e pugnali, protetti dal grande sasso.
Un processo piuttosto schifoso da immaginare, ma evocativo di purificazione.

Il cimitero degli alpini
Il cimitero degli alpini

Durante la guerra venivano qui a nascondere alle truppe di occupazione i loro tesori, in oro e soprattutto in cibo.
Venivano in questo posto, un riparo dal tempo brutto nei tempi brutti. Venivano qui di nascosto a cuocere le patate per stare insieme, sperare ed esorcizzare il male: la stessa cosa che facevano i loro antenati migliaia di anni prima.
E in alto, a picco sullo scavo, cosa c’è? Il cimitero degli alpini visto dietro San Bernardo, nientemeno.
Intorno a questa pietra si capisce che c’è del sacro. La Corna Nibbia, a ben guardare, è di per sé una gigantesca lapide, messa in verticale a scrutare l’alba.
Una lapide appoggiata su una terra così asciutta da essere diventata polvere.
Alla fine, in questa valle, si è trovato qualcosa che sembra sabbia.

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