Il 20 febbraio 1909 il fondatore Filippo Tommaso Marinetti pubblicava sul quotidiano parigino Le Figaro il “certificato di nascita” del gruppo, stampato nero su bianco in prima pagina. Era il primo Manifesto futurista, una dichiarazione d’intenti espressa in undici inequivocabili punti. Marinetti la scrisse nell’appartamento di via Senato a Milano, insieme ai compagni d’avventura. La scelta per la pubblicazione cadde sulla Francia, dove Marinetti aveva vissuto qualche anno per gli studi. In Italia aveva paura di passare inosservato perché l’attenzione pubblica era assorbita dal tragico terremoto di Messina, del dicembre 1908.
Marinetti, artista “esplosivo”
Già dal primo punto del Manifesto si ventilava il clima sovversivo dell’intero programma: “noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerarietà”.
Il poeta inneggiava a una nuova estetica della velocità, all’era della macchina, dell’elettricità e al futuro, definendolo “un’automobile ruggente che sembra correre sulla mitraglia più bella della Vittoria di Samotracia” e rifiutando qualsiasi forma accademica della cultura, al ritmo di “noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria”. Auspicava una completa aderenza tra arte e vita, da attuarsi attraverso una violenta sovversione all’insegna di una “ricostruzione futurista dell’universo”.
I Manifesti. Dalla tela alla tavola imbandita
La rivoluzione futurista partì dalla letteratura per sconfinare in tutti i campi della produzione culturale: dalle arti figurative all’architettura, dalla fotografia alla pubblicità, dal teatro alla danza. Marinetti e i suoi non risparmiarono nemmeno la cucina, che doveva saper nutrire gli animi più burrascosi.
Nel 1910, a solo un anno dalla prima pubblicazione, seguì il “Manifesto dei pittori futuristi” firmato da Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla e Gino Severini, che calcavano i toni di Marinetti, tuonando sulla messa al bando dell’arte passatista, per costruire una nuova estetica che potesse “rendere e magnificare la vita odierna, incessantemente e tumultuosamente trasformata dalla scienza vittoriosa”.
L’incubatrice della trasformazione futurista era la città, dove sfrecciavano treni e “tramvai”, dove si costruiva il futuro, dove cresceva senza sosta la nuova cultura tecnologica, che per il gruppo era l’unica eccellenza. In nome del dinamismo, i futuristi travolsero tutti i canoni della produzione artistica; la letteratura trovò massima espressione nelle “parole in libertà”, neologismi somiglianti a urla, versi inseriti in frasi sgrammaticate nate “disponendo i sostantivi a caso, come nascono” e coniate per “distruggere la sintassi”.