Più di 2 mila metri le montagne, come il deserto, sembrano dipinte e acquistano il colore della sabbia e dei minerali che le compongono: si va dal rossiccio, al verde, al color ocra. L’atmosfera è mistica. Il deserto e le montagne sono da sempre il rifugio dei contemplativi e ora mi trovo qui in uno dei luoghi al mondo dove esistono questi elementi. Agli inizi del monachesimo su queste montagne e nelle regioni aride del Sinai meridionale furono costruiti monasteri ed eremi per anacoreti e il più importante è il Santa Katerina.
Fra le rocce scorgo, con difficoltà, alcuni eremitaggi, a volte costituti da celle o gallerie sotterranee, dove i monaci si ritirano in meditazione per isolarsi maggiormente, alla ricerca di sé stessi. Devono amare profondamente la sabbia e il deserto, la natura selvaggia che li circonda. Devono provare emozioni intense, o forse in loro, si e compiuto un distacco dalla realtà, dalle cose materiali, come se vivessero in un’altra dimensione, come se alle cose del mondo assistessero solo, immersi nella gioia e nella pace. Assorta, mi distraggo e perdo l’equilibrio, tento un salto verso un punto sicuro per non cadere e mi ritrovo con una distorsione alla caviglia. Un dolore lancinante, poi, dopo un lungo massaggio, tutto «sembra» tornare a posto.
Decidiamo di tornare. Scendendo la scalinata scavata nella roccia, incontriamo una donna beduina con due asinelli carichi di bottiglie e viveri; il suo volto è coperto ma gli abiti sono molto colorati; ci fa un cenno col capo e prosegue. Scorgiamo il villaggio sotto di noi. A differenza di questi beduini, nel deserto vivono i discendenti dei nomadi che dalla penisola arabica (il loro nome deriva dall’arabo badia, cioè deserto) raggiunsero la penisola del Sinai circa 5 mila anni fa, e come gli ebrei e i cristiani, hanno una speciale venerazione per Mosé, Sono stati le guide e i protettori dei pellegrini cristiani diretti verso Santa Katerina e verso la Terra Santa. In seguito, con l’avvento dell’Islam, hanno scortato i pellegrini musulmani verso la Mecca. Ma non c’è sempre stata pace nella penisola del Sinai: nell’ottobre 1956 e nel giugno 1967, la penisola fu teatro delle vittoriose operazioni belliche condotte dall’esercito israeliano.
Dopo il villaggio il sentiero si divide: possiamo ripercorrere il sentiero da cui siamo saliti, oppure scendere gli interminabili gradini, uscendo poi direttamente sopra il monastero a valle. Decidiamo per la scalinata: più breve, più difficoltosa, ma soprattutto più panoramica e interessante. È affascinante ammirare gli strati di diverso colore che formano le montagne; lungo la discesa è un susseguirsi di rocce dalle più svariate forme e colori. Ci stiamo avvicinando a una piccola oasi, un paradiso verde che si fonde nel paesaggio arido ma dalla bellezza stupefacente.
Il silenzio regna sovrano in un’atmosfera fatta di tranquillità e di pace. Entriamo in un profondo canyon dirupato, dove i gradini sono appena segnati; talvolta siamo costretti a procedere superando le rocce e terreno franoso, e notiamo dei piccoli frammenti di granito. La vetta del Sinai scompare alla nostra vista. Una leggenda musulmana narra che questi gradini, scolpiti nella roccia, siano stati calpestati dal cavallo di Maometto, Durak, in occasione della sua ascensione al cielo.
Dopo aver superato un’arcata nella roccia, seguita da una rampa di gradini ripidissimi, finalmente scorgiamo la valle e il monastero che abbiamo incontrato la notte prima, costruito in memoria di Santa Katerina. Nel 367, lì l’imperatrice Elena, madre di Costantino, fece costruire una cappella in memoria della Santa, poi nel sesto secolo l’imperatore Giustiniano vi fondò il monastero. Siamo piuttosto euforici come ogni volta che scendiamo da una montagna; il Monastero, che la notte precedente ci era apparso così austero, ora si staglia quasi ridente fra i colori della sabbia, della roccia e il verde dell’oasi.
Con una lentezza quasi solenne, una fila di cammelli avanza sulla strada. Siamo seduti in attesa del nostro turno di visita al Monastero, vicino a noi una guida è impegnata con un gruppo di turisti. A malapena riesco a seguire le sue parole, sono un po’ preoccupata, la caviglia ha cominciato a farmi male irradiando un dolore insistente fin sopra il ginocchio. «… questo luogo è sacro per tre religioni: ebraica, cristiana e islamica… È qui che Dio, tramite il roveto ardente, si rivelò a Mosé e gli ordinò di far uscire il suo popolo dall’Egitto… Ci vivono dieci monaci ed è la più piccola chiesa ortodossa del mondo… Una biblioteca conserva preziosi manoscritti tra cui il codice greco biblico, detto appunto Sinaitico… Una delle più belle attrazioni del deserto…».
Guardo desolata la mia caviglia che continua a gonfiarsi. I miei compagni sono spariti all’interno del monastero. Non sono più riuscita a rialzarmi e se solo appoggio il piede per terra, sento un dolore insopportabile. Non resta che attendere il loro ritorno. Intorno a me è tranquillo, sono spariti tutti, solo un bimbo, coperto di stracci polverosi, mi fissa al di là della strada con il dito in bocca. Per vincere il dolore non c’è che un sistema, pensare ad altro, estraniarsi, e così mi ritrovo a meditare sulla bella avventura trascorsa.
Ricordo le parole del beduino, mentre parlava della sua montagna e i suoi occhi brillavano: «Sinai» diceva «deriva da Sin dea della Luna adorata dai primi abitanti di questo luogo». Avevo sentito dire che gli esteti salgono su questa montagna per ammirare l’alba e il tramonto, gli amanti della montagna per fare un esercizio come un altro e i credenti per contemplare il luogo sacro. Io sono salita sul Sinai per tutti e tre i motivi e la mia gioia è stata grande come la prima volta che sono salita su una montagna, tanti anni fa.
L’UOMO DELLA MONTAGNA
Nel silenzio ovattato tendevamo l’orecchio incuriosite, da alcuni minuti non sentivamo quel tonfo lento e meccanico. Ma eccolo di nuovo: come uscita dal nulla, scorgemmo una figura imponente che si avvicinava lentissima. Chiedemmo dov’era il rifugio, ci guardò con uno sguardo limpido e dai gesti, dalla voce, percepivamo una grande calma e una gentilezza d’animo che rivelava una certa personalità. Lo guardai mentre si allontanava diretto verso il canalone e mi chiesi quale serio problema lo costringeva a quella sua andatura così strana.
Nello stesso tempo, la sua figura sprigionava una tale forza di volontà, da farmi provare una grande ammirazione per la sfida che aveva intrapreso che lo spingeva a proseguire sempre più su verso la cima. Rimasi pensierosa; nei suoi occhi, forse, avevo colto un velo di malinconia. In quello stesso momento, ispirata da quella straordinaria tenacia, presi un’importante decisione: «Io salirò lassù, in cima alla montagna… lo prometto». Non molti giorni dopo mi ritrovai con mia figlia e una guida a scalare il canalone, avvolti da una fitta nebbia. Senza allenamento arrancavamo affannate, ma con grinta e decisione. Quando, come da uno squarcio, emergemmo da quel grigiore, una visione stupenda di picchi strapiombanti e di verdi pascoli inondati di sole ci lasciò esterrefatte. Raggiungemmo la vetta con il cuore che batteva forte e invase da una grande emozione.
Sotto di noi un’immensa coltre di nubi ci lasciò senza fiato. Ripensai alla nostra vita fino a quel momento: era imprigionata nella nebbia e poi, all’improvviso, una porta si era spalancata, facendoci scoprire un mondo nuovo, un mondo di luce fantastica, un mondo meraviglioso. Seguirono altre cime entusiasmanti, sempre più alte, dai 4.800 metri del monte Bianco ai 6 mila metri dei passi himalayani. A ogni salita si aggiungeva un colore nuovo alle nostre esistenze perché, ogni volta, nel nostro cuore, rimaneva qualcosa di prezioso e indimenticabile.
La montagna, maestra di vita, ci ha insegnato a superare ogni difficoltà aprendoci nuovi orizzonti… Il piacere dell’amicizia e della solidarietà, il calore di un canto alpino, l’allegria e l’entusiasmo e poi ancora, i viaggi, i trekking, i paesaggi mozzafiato, la conoscenza di nuove culture hanno aperto la porta a una mentalità nuova, rinnovata. Eppure non ci è più capitato di provare un’emozione così intensa, la gioia, una gran voglia di vivere e di conoscere così alti valori, come lassù, sulla vetta della Grigna, la prima volta che scoprimmo la montagna. Erano bastati pochi minuti perché la grande forza di un «gigante buono», l’uomo della montagna, riuscisse a smuovere dei macigni deviando il corso di due vite. Spero che la nostra riconoscenza possa giungere fino a lui.
(21/09/2012)